mercoledì 26 aprile 2017

Dodici uova rotte

Di Luana Baldacci

Giornate di vita quotidiana perse nel niente della mia vita presente. Giornate di vita che mi riportano ossessionatamene al tremendo passato senza poter fare niente per respingerle. Oggi, per esempio, sto rivivendo un episodio di quando avevo appena (e non ancora) cinque anni. Erano i primi di febbraio e faceva un freddo cane, le straducole e i viottoli di Collesalvetti erano uno strato di ghiaccio che brillava di prima mattina sotto un tiepido sole nascente. Io ero poco vestita, le gambe nude e i piedi intirizziti e infilati in un paio di zoccoletti che mi stavano oltremodo piccoli, quando il caro mio ”papà” mi mise un cestino con un canevaccio dentro, in mano dicendomi: «Ora vai su alla chiesa che la perpetua ti deve dare dodici uova fresche! » Io spalancai gli occhi e con in mano un cestino di vimini uscii dalla nostra casa, una baracca di legno avviandomi intirizzita dal freddo verso  la chiesa che stava abbastanza lontano in cima alla collinetta. Arrancando mentre morivo dal freddo, su per la terribile scalinata fatta di larghi e grandi scalini arrivai alla chiesa. Suonai alzandomi sulla punta dei miei piedi afferrando la cordicella che teneva legata una campanella. Venne ad aprirmi la perpetua che mi fece entrare e presa dalla pietà mi fece bere una tazza di latte caldo con insieme un biscotto fatto in casa da lei.
Dentro la chiesa faceva un po’ caldo e io lì stavo bene, ma fu per breve tempo, la signora perpetua ritornò con il cestino pieno di uova da portare via e uno con due buchetti che mi fece bere; l’uovo era ancora caldo e veramente buono. La ringraziai e nel salutarmi mi diede un bacio sulla fronte dicendomi: «Fai attenzione a scendere povera piccola!». Nel tragitto di andata e ritorno ero in compagnia di Bianchina, una piccola cagnetta che si era fatta amica mia, di mia sorella, e della mamma. «Andiamo Bianchina, non possiamo fare tardi lo sai... » Il freddo mi faceva tremare da capo a piedi e i zoccoli mi uscivano dai piedi congelati. Faticavo, non so dire quanto, camminando su quei enormi scalini ghiacciati in discesa. I miei passi erano piccoli ed incerti e, non so come fu, ad un certo punto dopo aver sceso due soli scalini scivolai e caddi con il corpo in avanti tenendo più alto che potevo il cestino con le uova, ma loro cadevano mentre io ruzzolavo sempre più giù sempre più giù e in fondo mi fermai tumefatta dalla lunga e brutta caduta, mentre Bianchina leccava a più non posso le uova rotte. Mi alzai infine da terra e mi guardai le gambe. Stavo perdendo sangue dalle cosce fino ai piedi e anche dalle mani e dalle braccia nude. Ero dolorante dalla testa ai piedi e anche nel viso ero coperta da graffi e me lo strusciavo con le mani doloranti e insanguinate. Feci allora un grosso respiro e mi feci coraggio serrando come al solito la bocca tumefatta. Chiamai la cagnetta e mi avviai con lei verso la baracca con il cestino vuoto in mano. Sulla porta c’era “lui” con i suoi stivali neri e in mano il suo adorato frustino! Poi: «Cosa hai fatto cretina?» Mi chiese ed io pensai dentro di me «Perché non si vede che sono caduta? ». Ma “lui” mi dette due frustate nelle gambe e mi buttò  in casa con uno spintone mentre con un piede dava un bel calcio alla cagnetta che era tutta sporca di uova. Dentro continuò infuriato a tirare seggiolate a me e a mia madre che cercava di difendermi dalla sua furia. Poi “lui” se  ne andò  bestemmiando e io rimasi abbracciata alla mamma che piangeva disperata e con lei piansi anche io! Ecco questa è un’altra piccola parte delle angherie subite assieme a mia madre da “lui”.

La stupidità di una domanda, l'amore di una risposta

Di Luana Baldacci

Parlando una volta con una bambina, non mi ricordo il nome o forse non lo voglio dire, ma ero bambina anche io, le dissi con il pianto in gola: «Io sono orfana della mamma da quando nacqui, però ho un'altra mamma. Lei mi ha cresciuta con l'amore per sette anni»
«Beata te» mi disse la bambina interrompendomi «Sei ben fortunata, hai due mamme!»
«Certo che sì, sono tanto fortunata, infatti...» 
«Sai però di due mamme non ne ho neppure una! Saranno assieme in cielo. Sono lì, si tengono per mano, si fanno compagnia e parlano di me. Ma sai io ti dico che... senza l'amore delle mamme mie io sono cresciuta sola! Però le ho tutte e due con me, sono qua, dentro di me nel cuore e nell' anima mia.

Gioia e Dolore

Di Luana Baldacci

Credit hepingting / flickr creative commons
Vorrei parlare di amore a tutti quanti a tutto il mondo intero.
Vorrei amare la vita che mi hanno dato, ma amo ciò che la vita mi ha dato e che mi dà.
Mi ha dato poco e mi ha dato tanto...
Poche gioie e tanti dolori, ma mi volto e mi guardo attorno e vedo forse più del mio, e allora ringrazio questa vita che mi ha dato la gioia più bella e più grande del mondo! Mi ha dato due figli. 
Un bene profondo grande quanto l'universo infinito.

lunedì 24 aprile 2017

L'ingiustizia e i soprusi

Di Letizia Lettori

Che cos’è l’ingiustizia? L’ingiustizia è far male al prossimo, l’ingiustizia sono i soprusi nei confronti dei bambini, degli invalidi, degli anziani e di tutte le persone che, non potendo difendersi, soffrono. Spesso a subire queste brutalità sono le donne che vengono maltrattate da persone così malvagie da essere paragonate al Diavolo stesso. Purtroppo questi brutti episodi non conoscono freno perché la violenza e la cattiveria non guardano in faccia nessuno. La violenza si può manifestare in varie forme: quella fisica ti manda all’ospedale mentre quella psicologica ti annichilisce, ti umilia e ti distrugge. Anche quegli avvenimenti che sembrano più insignificanti, come episodi di derisione o scherno, possono essere testimoni di una grande malvagità. È ora di dire basta! Bisogna aiutare e salvare tutte quelle persone che sono vittime di maltrattamenti. Dio ci chiede di aiutare e stare accanto a tutti coloro che nella loro vita soffrono e continuano a soffrire, superando l’avversità di quei sentimenti che abbiamo paura di mostrare a color che ci vogliono bene. 

venerdì 21 aprile 2017

Droga

Di Luana Baldacci

Droga! Che brutta parola, ti aberra il cuore, lo fa soffrire lo fa sanguinare dal grande dolore che lo trafigge e lo sconvolge. Droga, uccide l’anima di chi ti è accanto e cerca invano di poterti aiutare, con sofferenza con tanto amore e tu fai di tutto per strapparle il cuore, cuore di mamma che lotta invano contro qualcosa che le sfugge di mano, che le attanaglia forte la gola, che ti vuole morto, ma lotta ancora nella speranza di riuscire a farti capire che tu stai sputando dentro il suo cuore e non ce le fa più a darti amore. E stanca, stressata vorrebbe pace che tu non le hai dato; la stai uccidendo oh droga ingrata. Droga, si comincia con lo spinello, poi si passa alla coca, poi all’ecstasy e si finisce con il buco in vena e di qui si passa all’overdose che ti porta alla morte, tua e con te tutti quelli che hanno sofferto per anni! Una preghiera, non fatelo, vi prego.

Una mamma e una nonna che ha vissuto quest'esperienza tramite un’amica che ha perso il figlio.

mercoledì 19 aprile 2017

Una Serata danzando sotto il cielo stellato!

Di Luana Baldacci

Marina di Pisa, luglio, sabato 1954.
A Marina di Pisa, ,oltre ai parenti che mi avevano buttata fuori perché avevo il ragazzino più grande di me di tre anni (Gianni) e che mi avevano rispedita a Livorno dall'unica persona che odiavo da sempre "mio padre", fortunatamente avevo tanti altri parenti. Qui avevo mia nonna Olga, mio zio Renzo, sua moglie, zia Bruna, due cugini anzi tre, Stefania, Olghina e Patrizio Baldacci che non avevano niente in comune con il malefico fratello e figlio "mio padre" quindi io, il sabato sera andavo da loro ed ero felice di farlo perché con loro stavo bene. Ogni sabato che andavo là, andavamo a ballare al Circolo ricreativo del partito Socialista, gestito dalle mie care “ziette” e dal marito di una di esse, per far vedere a loro che io ero viva e vegeta, con tanta voglia di far loro vedere che in fin dei conti non mi importava niente di quello che loro pensavano di me! Era una sorta di rivincita che mi prendevo contro la loro cattiveria nei miei confronti e con la mia certezza che avrei ritrovato il mio Gianni. Tuttavia ciò non avvenne in quel periodo estivo. Quell'anno avevo compiuto sedici anni ed ero particolarmente in vena di divertirmi a più non posso e di non perdere nemmeno un ballo. Quindi per quel primo sabato di luglio, mi ero cucita un bel vestitino di raso, rosa acceso tendente al rosso, scollatissimo dietro, che mostrava le mie spalle scurite dal sole, sino alla mia vita sottile, la gonna corta davanti e più lunga dietro e mi sentivo bella con i miei lunghi capelli tirati indietro e fermati da un fiocco ricavato da una striscia del mio vestito e niente trucco, ero proprio me stessa in versione ballerina con sandali di vernice nera uguale alla pochette dove tenevo i miei soldi, le sigarette e le chiavi di casa. Io, mio zio Renzo e mia zia Bruna eravamo seduti in fondo alla sala con davanti un tavolincino con sopra le nostre bibite, quando improvvisamente entrarono nella sala tre americani, militari di Camp Darby, due erano bianchi mentre uno era scuro di pelle. Erano proprio tre bei ragazzi. Si sedettero al tavolino vicino a noi. Venne da me un ragazzo di Marina di Pisa, io mi alzai e feci i tre classici balli con lui. Ci conoscevamo e durante il ballo chiacchierammo e ridemmo allegramente poi facemmo i successivi tre balli e finiti questi mi riaccompagnò al tavolo dicendomi: «Sei proprio bella e brava, ciao a dopo Luana!» Sorrisi e gli feci ciao con la mano. Sentivo gli occhi dei miei parenti fissi su di me e questo mi divertiva e contemporaneamente mi infastidiva, ma niente di più. Ero bella, ero felice e gli andavo placidamente in tasca a tutti e quattro compresa mia cugina Paola, che ininterrottamente si sbaciucchiava in mezzo alla sala con il ragazzo con cui stava ballando. Ad un certo punto girai lo sguardo verso il tavolino degli americani che momentaneamente stavano bevendo una birra e ridevano contenti. Ricominciò la musica e due di loro (i bianchi) cominciarono a chiedere alle signore e alle ragazze di ballare con loro; così cominciarono a ballare li guardai e vidi le loro bianche camice appiccicate addosso dal sudore che significava che non erano al loro primo ballo, mentre il compagno di colore era ancora asciutto e cosi capii che lui non avrebbe ballato mai! Mi alzai di scatto dalla sedia e nonostante il richiamo di mio zio, andai verso di lui e farfugliando e facendomi capire a gesti gli chiesi di ballare con me. Lui mi guardò serio e si presentò. Si chiamava John, così io gli detti la mano e risposi tirandolo un po’: «Piacere Luana, voglio ballare con te!» Lui mi mostrò terrorizzato il viso (bellissimo) e disse: «Io nero, tu bianca...» 
Lo guardai diritto negli occhi e cosi per battuta dissi: «Viva la Juve...» E così lo feci alzare dalla sedia tirandolo verso la pista da ballo. Il primo ballo era lento, e vabbè, mentre il secondo fu un boogie woogie e la sala cominciò a svuotarsi. Io d’istinto pensai ed alta voce e dissi: «Quanto siete ipocriti e meschini!» Intanto io e il nero, (non troppo nero) ci scatenavamo in balli sfrenati, dal boogie woogie al rock latino americano che erano stati richiesti all’orchestra dai suoi due compagni che smisero di ballare per guardare me e John che, quasi senza fiato, ballavamo ininterrottamente i nostri infiniti e veloci balli. Io mi ero tolta i sandali con il tacco alto e nonostante gli arrivassi alle ascelle non persi un passo e stavo impazzendo dalla contentezza e cosi diventai lo scandalo di Marina di Pisa; ma a me non me ne importava niente, proprio niente. Ero giovane, ero bella, ero felice di tutto questo e non provavo nemmeno un po’ di vergogna pur sapendo che in quei balli scatenati le mie belle gambe di ragazzina ribelle erano state viste in tutta la sala. Fu una serata bellissima e non me sono mai pentita neanche un po’ perché non sono mai stata razzista e ipocrita come i miei parenti che andavano tutti i giorni a battersi il petto in chiesa!

Recensione del film "Sing"

Di Virginia Gasperini, Alessio Polini e Paolo Di Giuseppe

Amate gli animali? Amate la musica? Allora Sing è il film giusto per voi. Uscito solo alcuni mesi fa, il cartone racconta la storia di una competizione canora tra concorrenti che, come tutti noi, svolgono quotidianamente mansioni comuni e lavori normali. Tuttavia, a differenza di noi, non solo hanno le zampe al posto delle mani, ma alcuni di loro hanno il pelo o gli aculei; ebbene sì, sono tutti animali! La gara di canto di cui narra il film nasce con lo scopo di salvare il teatro dal fallimento del proprietario, Buster Moon, un simpatico koala vestito di tutto punto. Tra i molti concorrenti i più talentuosi risultano essere due maiali, un topolino, tre lucertole (ballerine oltre che cantanti), un elefante, un istrice femmina che suona la chitarra ed un giovane gorilla. Quest’ultimo è forse il personaggio la cui storia emerge più prepotentemente, infatti, osteggiato dal padre che lo vorrebbe nella sua banda di ladri, il ragazzo decide di ribellarsi e partecipare alla competizione. Sfortunatamente il padre del giovane gorilla viene catturato, ma riesce ad evadere e fare gli auguri al figlio che riesce ad esibirsi in maniera strepitosa. Alla fine, grazie alle emozioni che questi animali hanno saputo donare con le loro canzoni, il teatro viene salvato ed ognuno gioisce del proprio successo. Il film ci è piaciuto molto, è stato divertente, scorrevole e ci sentiamo di consigliarlo caldamente a tutti color che amano il cinema e i cartoni animati; grandi e piccini.



venerdì 14 aprile 2017

Riflessioni sul film "Hachiko"

Di Virginia Gasperini

Il film che abbiamo visto oggi si intitola “Hachiko”; si tratta di un film ricco di spunti e di emozioni e ognuna di esse è riuscita a far riemergere in me ricordi e sensazioni passate e lontane sia di natura positiva che negativa. Le prime, tenere e felici erano legate a sentimenti gioiosi, mentre le altre evocavano più tristezza e malinconia, che con il loro abbraccio avvolgono l’intera atmosfera per tutta la durata del film. A tal proposito mi torna alla mente il mio primo animale domestico, una gattina siamese che poco prima di spirare salì sulla brandina dove a quel tempo dormivo (il mio letto era infatti occupato da mia nonna)  e mi leccò come se avesse voluto salutarmi con un bacio prima di andarsene verso il paradiso degli animali. Oltre alla mia gatta, Pallina, ho trovato un altro vero amico in Napoleone, il vecchio cavallo con cui ho affrontato innumerevoli difficoltà e che mi è rimasto fedele sino alla fine dei suoi giorni. Il giorno del suo trentesimo compleanno, io e i ragazzi del maneggio gli organizzammo un’enorme festa e lui, con i suoi enormi, occhi sembrò dirmi: «Ora è tempo che vada perché mi sento mancare le forze, ne abbiamo passate tante insieme…»
Mi tornano a mente le nostre passeggiate, gli scherzi, le coccole, gli esercizi ecc.  Non lo dimenticherò mai.
Penso che agli animali manchi solo la parola e già da quando entrano a far parte della tua vita diventano membri della famiglia e si affezionano noi esattamente come noi ci affezioniamo a loro: riconoscono i tuoi passi, la tua voce, il motorino o la macchina e diventano tuoi per sempre, oltre il tempo, oltre la morte e questo ti riempie il cuore di gioia.


Di Paolo Di Giuseppe

Fedeltà per me significa che gli animali rimangono sempre vicino al padrone e penso che sia una cosa bellissima. Se avessi un cane buono forse mi piacerebbe provare questa fedeltà perché io non ho mai avuto un animale domestico. Tuttavia credo che provare la sensazione di fedeltà reciproca tra uomo e animale sia un brivido positivo di cui si può essere lieti e che ti riempie la vita.

Foto di Joyce Lam

mercoledì 12 aprile 2017

La mia vita, un romanzo giallo nero

Di Luana Baldacci

Nel 1938 la mia vita, un romanzo giallo che comincia da quando ero ancora in pancia della mia mamma e non finirà mai, mai! Marzo 1941, avevo allora appena compiuto tre anni, ed ero a casa dei miei nonni, nonno Francisco e nonna Nella. La mia testa di piccolina immagazzinava tutto ciò che vedevo e sentivo, il mio cervellino cercava disperato di dare un senso a tutto ciò. Ma ero proprio piccola e tutto rimaneva chiaro dentro il mio cuoricino sofferente per non avere la facoltà di far capire ad altri che io capivo tutto ciò che sentivo e vedevo. Troppo piccola per parlare ma già grande per capire. Quel giorno, io ero sdraiata nel lettone dei miei nonni abbracciata da mio nonno che stava poco bene, mi era stato detto di non dare fastidio al nonno e di non svegliarlo se si fosse addormentato. Io me ne stavo, come al solito, ferma ferma con il braccio del nonno che mi teneva stretta al suo corpo. Il suo braccio cominciava a freddarsi piano piano ed io con le mie manine cercavo di coprirlo un po’ di più,  ma non ce la facevo e non avevo il coraggio di levarlo dal mio corpicino e così rimasi immobile e tranquilla per non svegliarlo. Il nonno aveva da poco fumato una sigaretta, non so quanto fosse quel poco, poi si era addormentato. Dopo cominciò la confusione, di grida e di pianti di mia nonna e delle zie. Poi entrò nella stanza un signore con una valigetta dalla quale tirò fuori una cosa che si pose alle orecchie e scuotendo il capo girandosi verso mia nonna, che stava abbracciata ad una mia zia, singhiozzando disperatamente ed io non riuscivo a capire il perché. Io ero ancora sdraiata lì, non mi ero mossa di un centimetro, quando quel signore prese il braccio di mio nonno io sentii un terribile crack, che porto ancora nei miei orecchi, e dissi  piano: Non fare male a mio nonno, non lo svegliare!
Poi fui levata dal lettone e fui messa in fondo alla stanza su una grande poltrona e così assistetti a tutto ciò che facevano a mio nonno. Lo vestirono per benino e nonno non si muoveva né si ribellava. I miei occhi si spalancavano sempre di più per seguire tutto ciò che accadeva mentre il mio cuoricino batteva sempre più forte dentro di me. Poi portarono in camera un letto di legno fondo e foderato con dentro un cuscino viola. Poi quattro persone vestite di un lungo abito nero un cordone bianco alla vita e un cappuccio con due fori all’altezza degli occhi, presero il nonno e lo misero dentro quel letto di legno. Io ero terrorizzata e mi domandavo perché quelle brutte persone avessero messo il nonno lì dentro e lo avessero chiuso con una tavola e lo portassero via. Cominciai allora a chiamarlo, urlando con tutta la mia voce; nonno, nonno svegliati, non andare via, non andare… Qualcuno venne verso di me e mi disse: Non gridare Luana, il nonno non può venire da te perché è morto ma io non capivo quella parola, cosa voleva dire che era morto? Faceva freddo e la stanza, a cui avevano spalancato la finestra, mi faceva tremare, avrei voluto piangere, ma io sin da allora e anche prima non piangevo mai, ingoiavo la saliva che mi riempiva la bocca e spalancavo ancora di più i miei occhi terrorizzati. Fu allora che vidi il diavolo! Era mio “padre” che veniva a portarmi via per riportarmi a casa dove, mi disse, c’era la mamma che era tornata a casa dopo essere stata all’ospedale con la mia sorellina Silvana. Io mi divincolavo fra le sue braccia terrorizzata, con il cuore e la testa in tumulto, e pensavo che tutto sarebbe ricominciato come prima, come prima… Mi mise seduta sopra la canna di una bicicletta nera con un cuscino sotto il sedere e le mani afferrate al manubrio di essa, dicendo con voce cattiva: Cerca di stare ferma altrimenti ti faccio cadere! Io annuii con la testa tenendo la bocca, con le labbra serrate, chiusa e dolorante. Sapevo bene che ciò che aveva detto lo avrebbe fatto certamente e così arrivammo al Collesalvetti dove abitavamo e dove avrei abbracciato la mia mamma! A casa, mi dicevo parzialmente fra la contentezza e l’angoscia che mi attanagliavano! Ricominciò così lo scorrere del mio romanzo giallo che ancora oggi non ho finito di leggere e non arriverò mai a finirlo perché arrivai a dirmi che più che un giallo era di terrore e di paura vera. Per ora mi fermo qui perché oggi non sono in grado di definire su queste pagine tutta la mia ingrata sofferenza e le angherie subite da lui. So solo che non potrò mai e poi mai perdonarlo del male che ha fatto a me e alla mia mamma Amelia!

Le mie esperienze nel CAT, Club Alcologici Territoriali

Di Riccardo Favilla

Perché frequento un Club

Spesso le persone mi chiedono perché dopo tanti anni continuo a frequentare il club. Tanti anni fa quando frequentavo il club non riuscivo a capire e a trovare uno scopo di frequentarli. Dicevo dentro di me che avevo problema perché secondo me lo avevano gli altri. Poi dentro di me iniziò una crescita. Frequentando le scuole conobbi persone che mi aiutarono nel cammino verso l'astinenza. Di errori ne ho fatti tanti, il piu grande è stato quello di non capire l'importanza di camminare con gli altri. Nel 1998 ho conosciuto una persona che è stata importante per il mio cammino, Giovanni Giovannetti. All' inizio non riuscivo a capire l'importanza dei suoi insegnamenti, poi morì lasciando un enorme vuoto; la sua fotografia è ancora appesa al muro del club. Ivo, Mara, Patrizia, Ornella, Michela ecc. mi hanno fatto capire cosa è l'amicizia nei club. Continuo a frequentare i club, perché lunedi è un giorno importante per me, un giorno magico dove posso parlare liberamente, essere amato e ascoltato. Per i nuovi l'inizio del cammino nel club è difficile, i primi mesi sono una lotta continua con se stessi, ma ce la farete come ce l'ho fatta io. Ornella è una  buona servitrice insegnante che sa ascoltare e lascia parlare tutti noi. Mara per me è come una sorella anche se nei 14 anni che ci conosciamo abbiamo litigato e fatto pace. Le scuole di primo secondo e terzo modulo sono importanti per la crescita delle famiglie dei club, anche se le ho frequentate varie volte vi scopro sempre cose nuove perché spiegate in maniera diversa. Vorrei ringraziare anche la mia famiglia, mio padre in modo speciale che mi è sempre stato accanto nel cammino che mi ha portato alla sobrietà. Frequentare il club non è pesante, anzi è meraviglioso ed è come essere in famiglia. Continuerò a frequentarlo e spero di dare il mio apporto come servitore-insegnante avendo frequentato il corso di sensibilizzazione per servitori insegnanti a Prato nel 2005. Spero un giorno di contraccambiare quello che mi avete dato.


Che cosa mi ha dato il club 

Il club tanti anni fa non lo conoscevo, la mia vita scorreva sempre uguale tra lavoro, quando lo trovavo, bar dove credevo che le persone fossero mie amiche e in famiglia dove le cose non andavano molto bene. Ventisei anni fa entrai nel club del dottor Marinari, lo frequentavo prima con mio padre e poi con la mia ex fidanzata. Il mio percorso procedeva con alti e bassi, smettevo di bere e ricominciavo. Quando il dottor Marinari mi dette l'Antabuse, i primi tempi avevo paura, ma arrivai a berci dietro e mi sentii molto male. Ricordo con piacere Giovanni, servitore-insegnante che mi prese per mano fino a farmi smettere di bere. A novembre, sono quindici anni e sono molto contento del risultato raggiunto. Il club mi ha dato molto, innanzitutto ho cambiato vita, ho smesso di bere ed ho trovato amici sinceri. Nel club posso dire quello che sento dentro di me. Tuttora a distanza di anni, il non frequentare il club mi fa stare male e non vedo l'ora che venga il lunedì. Ringrazio tutte quelle persone che mi sono state vicino durante il mio cammino.


Il Talento e l'Altruismo

Di Letizia Lettori

Avere un talento significa sapere fare bene qualcosa, magari meglio di altri. Tuttavia essere bravi a far qualcosa non significa soltanto questo, ma spesso ci impone una sorta di dovere morale nei confronti nostri e delle altre persone. Che senso avrebbe, ad esempio, essere dei buoni pittori se non facessimo dono della nostra arte agli altri? Riuscire ad esprimersi attraverso le nostre abilità dimostra quanto siamo onesti verso noi stessi e, sempre tramite esse, possiamo regalare un pezzo di noi a chi ci sta attorno. Alcune persone, a differenza di altre, hanno una propensione particolare che si concretizza in un atteggiamento abnegante ed altruista. Possedere questo talento significa mostrare alle persone malvagie che non ha senso comportarsi egoisticamente ma, al contrario, bisogna donare il nostro cuore e trattare sempre gli altri allo stesso modo in cui vorremmo essere trattati noi. Nella mia vita, fortunatamente, ho potuto conoscere molte persone che mi hanno insegnato la bontà e per questo ringrazio: Rita, Pamela, Ines, Vittoria, Debora, Edo, Vittorio, Samuele, e Simona. Avere un talento significa infine che dobbiamo credere quotidianamente nelle nostre capacità e sapere che ogni giorno rappresenta una possibilità per noi e per coloro che amiamo. 


mercoledì 5 aprile 2017

Dialogare e soprattutto ascoltare

Di Alba Spagnuolo

Conversare: discorsi che si svolgono fra due o più persone; comunicazioni costanti che favoriscono la comprensione reciproca. Il dialogare avviene a parole, ma anche attraverso la scrittura. Le parole non sono il solo mezzo che abbiamo, per farci ascoltare.

Ascoltare: I sordi non lo possono fare!...Anzi, no!
Anche i sordi possono ascoltare le parole, magari con un piccolissimo apparecchio acustico quasi invisibile, ma anche senza quell'ausilio i sordi possono capire chi parla, con gli occhi, magari leggendo frasi o parole omesse dall'interlocutore osservando i suoi movimenti delle labbra, o ancor meglio i movimenti delle mani.

Ma per chi ha la fortuna di udire, ascoltare può essere comunque complicato.
Alcune difficoltà possono sorgere se chi parla usa una lingua sconosciuta oppure se ha gravi difetti di pronuncia, come i balbuzienti, gli autistici o come i portatori di trisomia 21 (sindrome di down) o infine difetti più lievi come la “erre moscia” o una parlata veloce che, come in certi dialetti, finisce per far sì che le parole vengano del tutto “mangiate”.
Ma anche quando uno parla bene e l’altro ha tutti gli organi di senso ben funzionanti, il dialogo può risultare non fluido e lo scambio fra parlare e ascoltare può essere faticoso e inefficace per entrambi gli interlocutori sia nell’udire che nel parlare.
Il dialogo fra due o più persone deve essere, appunto, un dialogo e non un monologo interminabile che impedisce agli altri di intervenire al fine di comunicare, correggere o fare aggiunte.
E se gli interventi sono permessi devono essere fatti nei momenti opportuni e con le dovute e necessarie precauzioni, senza sovrapporsi a chi già sta parlando, facendo attenzione a ciò che è stato detto, il tutto cercando di non smettere mai di guardarsi negli occhi.
Capita sovente che qualcuno si getti a capofitto durante un’esposizione, iniziando con un “Anche io, ma” o con un “Solo io”, seguito dalla narrazione di episodi personali accaduti; ciò spesso indica non solo mancanza di interesse verso l'altro che ha appena parlato, ma anche di non aver compreso veramente ciò che l’altro cercava di comunicare; si tratta di una vera e propria prevaricazione dell'altro, come se il proprio accaduto fosse più importante e interessante di quello degli altri.
Tale comportamento prevaricatore è un chiaro indice di narcisismo, di mancanza di rispetto per l’altro e rappresenta una forte richiesta di attenzioni verso se stessi. Ciò può provocare malcontento e insoddisfazione da ambedue le parti. Se parlare può essere facile, ascoltare dal canto suo può risultare difficile a causa del gran frastuono quotidiano in cui ci troviamo a vivere. È difficile ascoltare se la nostra attenzione è rivolta ad un altro o se il nostro pensiero spazia nella direzione opposta al nostro interlocutore. Può accadere che una persona esponga a parole una situazione vissuta di gioia, apertura, disponibilità, accoglienza, ma è solo ascoltandolo con attenzione totale, con tutti i sensi, che possiamo notare le braccia conserte, le gambe accavallate, il corpo contratto e lo sguardo rivolto verso il basso, chiari indici di tristezza.
È solo così dunque che possiamo riuscire a percepire un’incongruenza fra quello che viene detto con le parole e ciò che viene detto col corpo. Se vi e volontà e interesse ad ascoltare totalmente la persona che ha parlato è necessario indagare e osservare nel contempo ogni singolo elemento del suo corpo. Solo così potrà esserci un vero “dire”, “ascoltare”, un fluire di sentimenti, emozioni, un incontro come crescita, maturità, aiuto reciproco, benessere e trasformazione dal dolore al benessere. Tutto ciò si acquista con l’esperienza sul corpo, ma, elemento ancora più importante, è necessario che l’ambiente in cui si dialoga sia essere privo di stimoli sonori che altrimenti potrebbero produrre distrazioni, agitazione nei presenti e interruzioni continue. Occorrerebbe conoscere le regole basilari dell’educazione civica, un tempo materia di studio ormai, ahimè, tolta. Si tratta di dimostrare rispetto reciproco, non solo con le parole, ma concretamente attraverso gli atteggiamenti, significa mettersi al posto dell’altro, mettere in pratica l’empatia, intesa non solo nel provare a calarsi nelle situazioni altrui, ma provare a sentire gli stati d animo dell’altro, le sue emozioni, le sue tristezze, i suoi dolori, le sue gioie; tutto ciò significa essere parti attive in un dialogo, riuscire a chiedere scusa o perdono per qualche azione maldestra che può aver arrecato danno al fisico, o anche solo al morale, di una persona. L’offesa, l’ingiuria, la minaccia, l’arroganza, la prevaricazione sono certa, possono essere assai più dolorose di uno schiaffo, se resta non perdonata.

Riflessione sul terrore

Di Letizia Lettori


Il terrore è quel sentimento che ci assale quando, dopo aver perso qualcuno che amavamo, veniamo sopraffatti dalle nostre paure e dai nostri timori, impedendoci così di andare avanti e vivere la nostra vita appieno. Ma nella vita dobbiamo vincere sempre le nostre paure e continuare ad andare avanti con coraggio e superare tutti gli ostacoli e avversità che ci troveremo ad incontrare ogni giorno della nostra vita.