lunedì 26 marzo 2018

Perché parliamo con gli sconosciuti?

La Redazione


Tra discussioni, spunti e contrasti produttivi le menti, i cuori e gli individui della Redazione dell’Associazione Mediterraneo hanno dato vita ad un’unione di pensieri qui sotto riportati.

Che l'uomo rappresenti l'essere sociale per eccellenza è risaputo e numerosi studi in passato hanno abbondantemente affrontato e sviscerato il tema. Ognuno di essi possedeva una propria chiave di lettura, ma sebbene vi siano tutt'ora delle differenze inconciliabili, ogni pensiero ed ogni riflessione maturata nei confronti di quella che potremmo definire "psicologia della socialità" dell'uomo si basa su di un principio comune: quello della comunicazione. Essa rappresenta un bisogno primordiale dell'essere umano ed è soggetta ad un flusso costante di cambiamenti e mutazioni, tali infatti sono le necessità dell'uomo che, tramite essa, partecipa e trae benefici da questo infinito processo di conoscenza e arricchimento del sé. La comunicazione tra gli individui naturalmente è condizionata dal contesto socio-culturale, di conseguenza potrà essere alterata dai mezzi di comunicazione, dalla cultura e dagli usi di quella data società, ma qualunque sia il contesto a cui ci riferiamo sarà impossibile non poter sostenere come essa contribuisca a modellare il rapporto tra gli individui e di conseguenza le loro stesse identità. Ogni giorno ed in ogni momento della nostra vita riceviamo stimoli dalla comunicazione e dai messaggi che, consciamente o inconsciamente, trasmettiamo e riceviamo. Non esiste la non comunicazione, lo scambio comunicativo tra due o più individui avviene costantemente. Comunicare significa dare e ricevere sensazioni, emozioni, informazioni e rappresentazioni di sé che influenzano la realtà del destinatario e del mittente. Per quanto possa essere alterata, soggetta a pregiudizi o ad altri filtri, e quindi non equilibrata (condizione che si verifica nel momento in cui il mittente ed il destinatario del messaggio arrivano a percepire un feedback differente), vi sarà sempre un'interazione prodotta dalla reciprocità.
Fonte: Corriere della Sera
Erroneamente siamo tenuti a pensare ai cosiddetti "legami forti", quelli con amici, parenti e partner, come unici veicoli di senso di una comunicazione equilibrata e completa, ma così facendo rischiamo di trascurare quel ruolo di rilevanza che rivestono le relazioni con i conoscenti o perfino con gli sconosciuti. Infatti esistono numerosi studi che sostengono quanto spesso sia più semplice confidarsi con un estraneo e i motivi che possono spingerci ad agire in questo modo sono molteplici; lo sconosciuto non ci conosce, non sa chi siamo, possiamo scegliere di presentargli solo una parte di noi e qualora sentissimo il bisogno di aprirci, a differenza di come potrebbe comportarsi un nostro caro amico, non ci aspetteremmo di ricevere un consiglio sul problema che magari ci angustia (al quale probabilmente non saremmo neppure interessati), perché in questi casi ciò che cerchiamo non è tanto un confidente quanto uno sfogo o un riflesso di sé. Chi non ci conosce non ci espone il suo giudizio critico, ma si rivela un destinatario di confidenze che altrimenti probabilmente non avremmo espresso.
Certo, questo non significa che non vi possa essere una comunicazione finalizzata o una reciprocità nella relazione con uno sconosciuto, bensì quanto essa, talvolta, possa rivelarsi più spontanea.
Tale spontaneità nasce proprio dalla libertà che avvertiamo nel rapporto con l'altro; possiamo scegliere cosa mostrare di noi e come presentarlo, avendo così una più ampia libertà di scelta nella definizione della nostra identità con chi ci sta di fronte. A seconda di come egli reagisce possiamo imparare, sviluppare una nuova visione o arrivare persino a metabolizzare un nostro disagio. Accade sovente infatti che durante una conversazione con un estraneo pronunciamo più parole di quelle che normalmente siamo abituati a sentirci esprimere, niente di più frequente. Che cosa avviene in noi? Potremmo forse sviluppare una fisiologica necessità di prendere consapevolezza di noi stessi e degli altri e sentirci meno estranei nei confronti di una parte del mondo e della nostra realtà? Purtroppo tali interrogativi si prestano a così svariate interpretazioni ed approfondimenti che sarebbe impossibile per noi dare una risposta in questa sede, perciò ci auguriamo che le nostre riflessioni permettano a coloro che intenderanno far luce sul complesso tema delle relazioni umane di trovare validi spunti all'interno del nostro articolo, senza però distoglierli da una piacevole conversazione con il passeggero seduto di fronte.

lunedì 12 marzo 2018

Il futuro che vorremmo per la Salute Mentale


La Redazione

Tra discussioni, spunti e contrasti produttivi le menti, i cuori e gli individui della Redazione dell’Associazione Mediterraneo hanno dato vita ad un’unione di pensieri qui sotto riportati.

Salute pubblica: è diritto del cittadino di usufruire di ogni servizio sanitario presente sul territorio ed è opportuno che le istituzioni locali cooperino fra di loro per l’interesse comune, ovvero l’accesso libero per chiunque ad una sanità volta al conseguimento di un benessere personale e/o collettivo.

Negli ultimi anni tuttavia lo Stato “ha abdicato” il compito di tutelare la salute mentale del cittadino a partire dai più fragili. I più recenti dati statistici nazionali registrano infatti un forte incremento dei pazienti con patologie psicotico-depressive, ma a quest’aumento non corrisponde un’adeguata spesa sanitaria: ecco il paradosso che stiamo vivendo. Oltre ad intensificare e rendere più produttiva e a misura d’uomo la comunicazione fra le varie associazioni del terzo settore (che negli ultimi anni si è trovato ad attraversare un periodo di crisi che tutt’ora persiste), uno dei molti interventi che sarebbe opportuno e necessario applicare consisterebbe nel rinforzare le competenze ed il numero degli “addetti ai lavori” come psichiatri ed infermieri. Assumere più psichiatri significherebbe infatti ottenere sia un minor carico sulle spalle dei medici stessi, sia un’attenzione maggiore nei confronti dei pazienti che potrebbero essere così seguiti con più precisione e dedizione. Insomma, un approccio più diretto e personale con il soggetto in modo che il lavoro sia meno dispersivo. C’è inoltre un deficit nell’organizzazione dove il medico non dovrebbe limitarsi a somministrare esclusivamente medicinali, ma dovrebbe avere un rapporto più profondo e personale con l’utente in modo che si possa dare uno scopo alla persona attraverso un percorso non solo terapeutico ma anche colloquiale, di comprensione e disponibilità nonché conoscenza dell’individuo da curare. Pertanto, i medicinali non sono sufficienti visto il bisogno che c’è di essere ascoltati e compresi, quindi auspichiamo che le istituzioni possano decidere di investire maggiori risorse da utilizzare per assumere medici psichiatri e far sì che possano sviluppare le loro competenze e capacità attraverso percorsi strutturati nel campo della comunicazione, reperibilità e disponibilità verso la persona.
Source: kryczka (iStopckphoto)
Oltre ad intervenire sulla “quantità” e sulla “qualità” degli psichiatri alcuni di noi ritengono opportuna l’introduzione di una nuova figura professionale come il counselor filosofico; egli, oltre ad avere passione per il proprio lavoro e fiducia nei principi umani e nell’individuo, possiede competenze filosofiche, psicanalitiche a livello professionale ed una capacità di ascolto attivo nei confronti degli altri tale da consentirgli di entrare in empatia con chi gli sta di fronte, ponendolo sempre al centro come persona e individuo come unico ed irripetibile. Lo scopo del counselor filosofico è infatti quello di comprendere il paziente attraverso l’ascolto attivo e l’interpretazione filosofica dei suoi bisogni, dei suoi limiti e delle sue capacità. Da analizzare vi è poi il complesso rapporto tra utenti e personale sanitario; entrambi spesso percepiscono e vivono questa relazione come due estremi opposti, ma nel nostro sistema psichiatrico la cooperazione fra istituzioni, utenti e personale sanitario riveste un ruolo di fondamentale importanza. Il confronto, i rapporti alla pari e le collaborazioni possono infatti generare e sviluppare competenze in grado di migliorare l’intero sistema ASL. L’Azienda Sanitaria e le associazioni ad essa collegate ricevono sì dei fondi, ma purtroppo essi non sono sufficienti a garantire una copertura efficiente e di conseguenza efficace dei bisogni e delle esigenze dell’utenza, del personale e della relazione fra i due. Più fondi, più cooperazione, più investimenti ed una maggiore attenzione all’organizzazione serviranno a produrre una crescita collettiva, analizzata e diversificata a seconda dei bisogni e delle capacità di ognuno. È necessario finanziare poi degli spazi dove l’individuo possa aver modo di sviluppare le proprie competenze individuali nelle relazioni con gli altri e nello svolgimento di determinate attività o mansioni. L’isolamento e l’inattività infatti rischiano di condurre la persona ad un’aridità sia nei rapporti che personale che immancabilmente gli procurerà malessere. Il confronto con del personale esperto o con individui che possono aver avuto esperienze simili è molto importante proprio perché può contrastare attivamente il progressivo indebolimento nel sentirsi un individuo attivo e presente nella società. Una comunità intesa in termini religiosi/associativi o un gruppo di studio potrebbero in questo caso rivelarsi una valida opportunità per far sì che chi soffre si senta meno solo e non ghettizzato in uno spazio dove il confronto diviene attore e fine dell’intero percorso di cura della persona.

Sitografia:
http://www.news-forumsalutementale.it/salute-mentale-per-tutti/
http://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/aziende-e-regioni/2018-02-12/il-paradosso-salute-mentale-aumenta-disagio-ma-investimenti-sono-palo-125215.php?uuid=AEJCjiyD