giovedì 25 agosto 2016

Ragazzinsieme: imparare divertendosi

Intervista a Simonetta Garosi
Di Enrico Longarini

Amicizia ed una (ri)scoperta della natura, sono questi i principi su cui si fonda Ragazzinsieme, il progetto organizzato dalla Regione Toscana che da diversi anni ormai offre a ragazzi adolescenti l’opportunità di trascorrere insieme una settimana all’insegna della vita sana, della corretta alimentazione e dell’apprendimento presso la foresteria “Palazzo della Vigna” di Montioni. L’obiettivo principale del progetto è infatti quello di infondere nei ragazzi i concetti del rispetto per se stessi, per gli altri e persino nei confronti dell’ambiente che ci circonda. Nei primi giorni di agosto quindi i ragazzi si sono riuniti presso la stazione di Venturina e, partendo alla volta di Montioni, hanno dato inizio alla loro avventura.

Molti di loro già si conoscevano, altri invece sembravano davvero dei pesci fuor d’acqua, ma nonostante ciò tutti quanti si aspettavano di divertirsi e di stringere nuove amicizie. Le attività previste, come ogni anno, non hanno disatteso le aspettative dei ragazzi che, oltre a svagarsi, hanno colto l’occasione per osservare e conoscere cose nuove, come ad esempio le innumerevoli costellazioni che illuminano il cielo notturno che per loro, ragazzi di città, non era mai stato così “pieno di stelle”. Nei giorni seguenti poi tutti quanti hanno avuto modo vivere molte altre nuove esperienze e così si sono trovati alla guida di una barca a vela, hanno utilizzato un kayak, incontrato i numerosi animali che frequentano i dintorni della foresteria di Montioni e persino passeggiato in un bosco di notte. Le mete delle loro uscite sono stati i luoghi più suggestivi che il territorio poteva offrire loro, il lago dell’Accesa, i borghi di Suvereto e Populonia Alta, dove i ragazzi si sono divertiti a scoprire le piccole strade ed i vicoli bui e, dato che una sera era prevista una visita al paese di Massa Marittima, i ragazzi hanno dato il loro contributo nello sparecchiare per fare in modo che anche i cuochi della foresteria potessero godersi una piacevole serata d’estate al di fuori della cucina. Come ogni gita naturalmente non sono mancati gli imprevisti ed una mattina i ragazzi sono stati costretti a rimandare i loro piani per via del cattivo tempo, tuttavia questo non ha impedito loro di divertirsi, di organizzare una gara in cucina, (di dimenticarsi, a causa delle risate, svariati ingredienti) e di organizzare un torneo di biliardino, che nella sua semplicità si è rivelato un mezzo efficace attraverso il quale i ragazzi sono riusciti ad interagire con chi ancora faticava ad entrare a far parte del gruppo. Il giorno seguente tutti quanti sono partiti alla volta del golfo di Baratti, meta imperdibile per ogni turista fiorentino che si rispetti, e sono rimasti estasiati dalle sue spiagge pulite, dalle sue acque limpide e dalla tranquilla e serena quotidianità dei paesini del territorio. Alla fine del soggiorno i ragazzi hanno tirato le somme della loro esperienza ed hanno condiviso le loro opinioni: tutti quanti si erano molto divertiti, erano stati bene ed erano addirittura rimasti soddisfatti della gentilezza dei cuochi, sempre disponibili nei loro confronti.
A Montioni, sostenevano, avevano potuto dare sfogo alla loro fantasia e avevano potuto fare qualunque cosa desiderassero senza che nessuno li limitasse in alcuna maniera, cosa che secondo alcuni di loro, capitava un po’ troppo spesso in altri campi estivi. Non solo avevano avuto modo di visitare posti nuovi grazie a Carlo e Paolo, gli autisti che li avevano affiancati per tutta la durata di questa esperienza, ma avevano potuto conoscere una natura nuova e diversa. Ogni momento ed ogni occasione si è rivelato un pretesto per divertirsi e scoprirsi sempre più uniti e vicini e nonostante alcuni ragazzi avessero alcune difficoltà a relazionarsi, gli altri non hanno mai smesso di farli sentire parte del gruppo.

lunedì 8 agosto 2016

Di Rodolfo Lami

"Spesso nella vita possiamo essere tentati dall’irraggiungibile, ciò che conta è riuscire a trovare la strada di casa"

Vorrei averti nonostante tutto - Mina


Clicca qui per ascoltare il brano
La chiave
gira nella serratura
poi c'è lo scatto
dell'interruttore.
Dal letto io ti seguo
col pensiero
e so già tutto quel che stai per fare.
tu butterai la giacca
sulla sedia
ti sdraierai vestito
sul divano,
accenderai la radio
e piano piano
riempirai la casa
col tuo fumo.
No
io non lo so che uomo sei
e non capisco come fai
puoi ritornare qui
se non mi vuoi
perché
intanto che ci sei
non stai con lei,
si prenda pure anche i difetti tuoi
è troppo facile fare così.
Tra poco
spegni tutto
e vieni a letto
non guardi se ci sono
e ti addormenti
la faccia affondata
nel cuscino
e con un braccio
sfiori il comodino.
Ti passo le mie dita tra i capelli
poi scendo piano fino alle tue spalle
io sono pazza e sto qui a soffrire
e tu rientri solo per dormire.
No
io non lo so che uomo sei
e non capisco come fai
a ritornare qui
se non mi vuoi
perché
intanto che ci sei
non stai con lei
si prenda pure anche i difetti tuoi
è troppo comodo fare così.
Ma la speranza
è l'ultima a morire
per questo ogni notte
io ti aspetto.
Scompaiono le ombre
sul soffitto
vorrei averti
nonostante tutto.


A malapena ricordo il perché

Di Noemi Mariani

A malapena ricordo il perché… un amico ha fatto sì che io riflettessi ed allora mi soffermo… penso:
… Penso al mio risveglio di quel giorno, alla delusione che con repentino movimento diveniva padrona  dei miei arti, del  mio collo, del mio respiro… Gli occhi, con fatica, si riabituarono alla luce, la profonda conoscenza del luogo che la vista mi imponeva di vedere era soggiogata dalla speranza che tutto era un sogno, una falsità dell’immaginazione, dove i sensi stanchi mutavano a loro piacimento la realtà. Ma no, era reale, ero di nuovo in uno stato di condanna senza né giudice né legalità, senza la consapevolezza delle mie gesta…. sentivo un forte dolore al braccio, che in alcuni punti precisi assumeva un colore scuro con sfumature di un viola intenso, il dolore si estendeva su tutto il torace, le gambe indolenzite come se avessi corso per ore ed ore senza meta… capii, l’esperienza fece da padrona, avevo lottato contro qualcosa o qualcuno, non riuscivo a collocarmi in un passato che a tratti provavo a ricordare ma qualcosa che doveva essere fermato in me mi aveva portato in quel luogo, fra quelle mura sporche in quel mare di delusione…
La Delusione, l’anima mia ne era invasa, avevo ceduto per qualcosa, per qualcuno o per me stessa ero con la testa china davanti a tanta amarezza, che a stento notavo chi avevo intorno… 
Image copyrighted to Sharon Jheeta
Un suono, una voce, una parola dal tono tranquillo con venature amichevoli attirò la mia attenzione, ricordo che era mattina ed il sole era già in alto nel cielo, il senso di frustrazione aumentò appena riconobbi chi le pronunciava, ed il passato tornò con luce più chiara, la realtà aveva un senso, quelle parole così semplici avevano smosso in me ricordi molto piacevoli, poco distanti di tempo dal momento in cui li rimembravo, e quella voce  faceva parte di essi. Tuttavia, lentamente un dubbio cresceva in me, sempre più forte sempre più presente: “Perché il malessere aumenta? Perché non riesco ad alzare il volto verso una voce di cui ho ricordi felici? Perché…!”. Questi ricordi presenti in me e visti come un cortometraggio proiettato nella mia mente raffiguravano un viaggio, tra condivisioni di larga scala accompagnati da sorrisi e discorsi complicati di vita, una complicità naturale spoglia di qualsiasi ruolo, ma con un cammino comune, vissuto con spensieratezza, in un presente tragico.  L’emozione di questo presente di delusione in lotta con un passato sereno fece sorgere in me la vergogna di essere caduta, di essere di nuovo in un limbo tra dannazione e beatitudine, di non essere stata in grado di sostenermi sulle mie instabili gambe.
Passarono minuti, ore, giorni e quella voce ad ogni mattino mi dava il buongiorno, mi chiedeva come stavo o se volevo un caffè, sempre con quel tono tranquillo in armonia con la mia memoria, ed io, col passare del tempo, solcavo sempre più un sorriso sul mio volto facendo scivolare via quell’orrenda sensazione di vergogna, di fallimento, che mi impietriva davanti a chi mi ricordava con sorriso ed occhi tranquilli, di chi poco prima rideva e scherzava con serenità in un rapporto alla pari, ma in me, la sensazione di fallimento, di delusione e di repressione dovuta alla vergogna del mio “malato” essere e del mio cambiamento, non mi permetteva di alzare la fronte per guardare chi, senza che io capissi a pieno il perché, mi si rivolgeva sempre con complementarietà.
In quel luogo, che nell’animo mi dava così tanto degrado, i giorni erano passati  a riflettere sulle mie condizioni, non sempre a ragion di logica, sul mio letto esaminavo orizzonti di pensiero smarrendone  l’inizio e  senza possedere più la capacità di porne una fine, stavo male, ed è forse per questo che una mattina quell’infermiera dal docile saluto si fermò, e mi chiese con garbo se poteva sedersi accanto a me, non avevo motivo per rifiutare, anzi pensai di approfittarne, per convalidare i miei orizzonti le mie certezze e lì, immersa tra orgoglio e preclusioni, decisi di guardare il suo volto alzando il mio, cercando di intravedere la mia verità, le mie conferme, ma di tutto ciò di tutte le mie astruse convinzioni di pensiero, nulla o quasi corrispondeva alla pellicola astratta del mio film cerebrale. 
Fu un colloquio molto sereno, e una serenità incredula mi avvolse lentamente, appresi il senso del tutto, il mio atteggiamento incoerente non era l’apice del problema e  poco dopo, di getto, mi misi a scrivere su di un pezzo di carta dimenticato da qualcuno su di un tavolo… non volevo perdere quella sensazione liberatoria:
  “… Non solo il tempo cura le ferite di un animo trasandato, qualcuno in gesti a me inabituali, trascina la voglia di dare che il senso del tutto è esserci, qualcuno esiste, per restare a chi ha perso il nesso dell’esistenza…”
Mi ero persa, nella mia mente avevo smarrito la verità,  o mi ero creata la mia verità, una falsità che mi angosciava e mi dilaniava l’anima di vergogna, una vergogna apparente, una vergogna inesistente… quello che era sorto tra le parole di un dialogo risolutorio era semplice ma non banale, quello che la mia memoria accoglieva in ricordi passati nel benessere non era né falsa né morta, quel viaggio, tra risa e solidarietà del vivere momenti in comune era rimembrata anche dall’altra parte, all’esterno, in un'altra persona che anche essa con gioia ricordava. Il fatto di aver ceduto al mio “malessere” e essermi ritrovata fra quelle mura sporche non dimostrava che io fossi solo quello, sono anche gioia e serenità, sono stata capace di dimostrarlo a me stessa e agli altri durante quel bellissimo viaggio, questo ho capito ed è questo che quell’infermiera del mattino con serenità tra un saluto e una piccola cortesia mi manifestava…

Sono passati alcuni mesi da quel ricovero e da quando quel mio amico mi ha consigliato di rifletterci sopra e solo ad oggi sono riuscita a scriverlo, forse a realizzare che nulla può essere veramente perduto e come dei fatti possono rimanere in te anche gli altri possono imprimere in sé ricordi veri e positivi, inoltre se cadi la sensazione di vergogna è insensata poiché tutti possiamo piegarci ma tutti possiamo trovare in noi e negli altri la forza di sorridere e andare avanti. 


giovedì 4 agosto 2016

Un attimo

Di Rodolfo Lami e Noemi Mariani

Siamo qui, ai piedi di un discorso, dove la parola, stretta al collo dell’emozione, traspare di sillaba in sillaba la vita vissuta; gli sguardi vagano tra ricordi felici e drammi infantili mai compresi né voluti… Tutto composto da pezzi di memoria friabile al suono delle parole di chi ascolta ma  marchiate nel cuore di chi le pronuncia, un velo poco nitido posto davanti alla pupilla sotto forma di goccia, di lacrima di stilla che segna un volto leggermente contorto, seguito da gesti poco consoni in una conversazione tranquilla…
I forti toni e le parole sbilenche dall’emozione segnano la vita intera in un attimo. Al seguito di più lacrime pongo  fine al ricordo malsano, favorendo l’avvenuta alla mente di ricordi felici, i quali riaffiorano sempre anche dopo una tempesta, come  fiori bagnati dalla rugiada del mattino sbocciano all’insorgere del sole, riportando una fragile armonia nel volto di Rodolfo.


Tutto è composto da attimi, da ricordi che segnano il nostro vivere quotidiano, portarli “fuori” per esprimerli fa emergere la forza di come sono sempre presenti in noi, ma, tuttavia, vi è una forza maggiore per cui comunicare  ed è dargli una verità per cui sono vissuti, un senso per darci l’adesione alla realtà ed una appartenenza bifronte per chi ascolta e per chi si pronuncia, poiché l’esperienza di vita forma l’animo in entrambe le parti.   


Disegni che solcano il mare

Contributo dell’architetto Andrea Vallicelli.

Primadonna è la barca a vela dell’associazione Mediterraneo, prima gestita in comodato, ora di proprietà.
Poco tempo fa il timone ha subito dei danni e doveva essere riparato ma nessuno riusciva a smontarlo…prima di procedere con il taglio ci balena un'idea: perché non provare a contattare il prestigioso architetto Vallicelli, che disegnò la nostra barca come prototipo della più nota Azzurra?
Ed ecco che non solo ci aiuta a non distruggere il timone ma con grande disponibilità risponde ad una nostra intervista che pubblichiamo di seguito. Ringraziamo l’architetto e il suo studio per la celerità con cui ci hanno inviato i disegni e per la gentilezza dimostrata.
Domande:
 1) Per le persone che fanno vela con la nostra associazione viaggiare su Primadonna significa rilassarsi, lasciandosi andare alle onde e al vento con il solo rumore del mare che scorre sotto la barca, e sognare. Che sensazioni ha provato Lei nel progettare, quando era così giovane, delle barche che hanno fatto sognare l'Italia? 
2) Può sembrare paradossale che una barca, Primadonna, pensata per far vincere i migliori velisti sia oggi utilizzata dalle persone più marginali. Proprio per la sua nascita come barca da regata è stata anche tanto bistrattata nel nostro ambiente in quanto così spoglia e inospitale. Nel tempo delle piccole modifiche l'hanno resa più fruibile (avvolgi fiocco, scaletta) anche se il bagno è rimasto un "armadietto" Ciò ci spinge a fare una riflessione sul fatto che le barche sono le persone che le abitano. Pensa che il cambio d'uso di un oggetto sia uno spreco o dia ad esso una nuova vita?

Carissimi dell’Associazione Mediterraneo, rispondo con piacere alle vostre domande cominciando però dalla seconda perché mi sembra richieda una risposta più semplice ed immediata.
Ritengo che il recupero (o meglio il cambio d’uso) di un’imbarcazione, nata per le regate come “Primadonna”, se fatto con un po’ di cura e buon senso possa rivelarsi adatto ad una utilizzazione crocieristica. In fondo uno yatch ha una natura sportiva per definizione, e la vita a bordo richiede flessibilità sotto molti punti di vista (dimensionali, ergonomici, relazionali etc.). Inoltre sono dell’avviso che, come avviene in molti altri campi (spazi abitativi privati e pubblici, mezzi di trasporto etc.), l’adattamento ad un determinato artefatto, concepito originariamente con finalità diverse, permette di stabilire con questo un nuovo rapporto (uomo-oggetto), per alcuni aspetti più faticoso, ma per altri più stimolante. 
Passando alla prima domanda, posso dirvi che ho cominciato fin da piccolo a svolgere attività agonistiche nel campo delle regate d’altura. Poi quando ero ancora studente di architettura, ho disegnato per puro divertimento la mia prima barca a vela di 9 metri: “Ziggurat”, che successivamente fu realizzata con il concorso finanziario, e fattivo, di una decina di amici.
Ziggurat (il nome era ispirato non tanto all’archetipo architettonico quanto alle opere pop di Joe Tilson degli anni 60), progettata per gioco, ottenne risultati significativi nell’ambito delle competizioni nazionali ed internazionali ed è accaduto così che altri appassionati mi richiedessero di progettare nuove imbarcazioni, tanto da indurmi in breve tempo ad iniziare – senza che me ne rendessi conto – una vera e propria attività professionale a cui mi dedico ormai da una quarantina d’anni.

Tralasciando gli aspetti specificatamente professionali, vorrei offrirvi, oltre le mie impressioni da progettista, delle riflessioni sui temi riguardanti la dimensione “creativa”, o meglio “ideativa” (come credo sia più corretto chiamarla) di un’attività progettuale (design) che ha a che fare con artefatti particolari (navi, imbarcazioni) destinati a vivere, percorrendo, un contesto speciale sotto il profilo naturale e culturale come il mare.
L’ambiente marino non è mai stato un territorio di facile dominio ed i mezzi concepiti per percorrerlo sono delle macchine piuttosto complesse che forse rappresentano le più antiche macchine abitabili ideate dall’uomo.
Passando all’attività progettuale, premetto che in molti anni di esperienze in questo campo, ho maturato la convinzione che la progettazione sia un processo complesso la cui dinamica (spesso imponderabile) si articola in più momenti interattivi fra loro: uno di ideazione, uno analitico di supporto, di verifica e controllo ed uno sintesi che costituisce l’elemento tangibile e necessario alla concretizzazione dell’oggetto. Non conosciamo esattamente in quale regione della nostra anima si svolgano, ma crediamo, forse per motivi consolatori, che i processi analitici e quelli di sintesi appartengano alla sfera del razionale, quella controllata dall’io cosciente, altrimenti non potremmo trasformare questi processi in esperienze ripetibili, oggettivabili e quindi trasferibili per via culturale.
La ricchezza delle fonti a cui ci abbeveriamo nella fase ideativa dipende da molti fattori: dalle esperienze personali e sociali, dall’ambiente, dalla nostra cultura, ed anche dal mare magnum del nostro inconscio: Mi hanno sempre affascinato certe analogie fra lavoro progettuale e lavoro onirico che fonde linguaggi primordiali con residui mnestici di altre esperienze: ambedue mirano all’appagamento di un desiderio.
Il progettista opera come un catalizzatore di molti elementi più o meno riconoscibili, con l’obiettivo di dar forma a delle funzioni o paradossalmente (come talvolta accade) a subordinare le funzioni ad una forma che lo ha condizionato emotivamente.
Il progetto di un prodotto destinato ad una produzione industriale (anche se di poche unità) mira a determinare non solo le proprietà formali dell’artefatto in questione, ma soprattutto la sua coerenza in termini di relazioni funzionali e tecnologiche. Ovviamente il ruolo di altri fattori, quali i modelli di consumo, l’evoluzione del gusto, i sistemi di vendita che sono alla base delle strategie commerciali, hanno un peso non certo secondario nella definizione del prodotto stesso.
Il designer che opera nella nautica, forse più che in altri campi, è costretto a confrontarsi continuamente con la multidimensionalità del problema progettuale, ad interfacciarsi con discipline diverse. La ricerca abbraccia infatti tematiche molto articolate: basti pensare ai problemi fluidodinamici, all’innovazione tecnologica ed ai sistemi produttivi legati ai materiali compositi, all’indagine ergonomica ed all’arredamento negli spazi minimi, nonché alla interpretazione delle dinamiche di un mercato molto volubile.

Quando mi trovo a progettare un’imbarcazione a vela e voglio raggiungere un risultato che soddisfi contemporaneamente i requisiti tecnologici e quelli estetici, mi è indispensabile partire dalla conoscenza e dallo studio dei problemi di tipo aero-idrodinamici, ma la consapevolezza dell’importanza dei fattori simbolici mi porta anche a percorrere strade meno controllabili scientificamente: come quelle in cui mi diverto a giocare con elementi formali che evocano archetipi della lunga storia navale o dell’ambiente naturale. Cerco di avere, in definitiva, un controllo dell’iter ideativo su più livelli, ma il problema prioritario sta nel raggiungere una condizione di equilibrio sotto il profilo configurativo e prestazionale. Una metafora, quella dell’equilibrio, che ho rintracciato nei mobiles di Alexander Calder.
In queste sculture, che sembrano galleggiare nell’aria, se tocchiamo un elemento, il sistema assume immediatamente una nuova configurazione grazie alla forza di gravità, che tende a ricomporre e a riorganizzare le diverse parti che le costituiscono. Qualche tempo fa nel visitare una mostra di questo grande artista mi capitò di leggere delle sue riflessioni su alcune opere realizzate negli anni 60. Mi sorprese che lui stesso usasse la metafora della barca a vela per esprimere il senso dei mobiles. Non nascondo che mi abbia emozionato pensare che potesse esistere una profonda affinità fra le sue opere e le mie imbarcazioni. Un’affinità che si manifesta essenzialmente nella stessa sfida alla gravità, nella ricerca di materiali sempre più leggeri e resistenti, nelle soluzioni e nei meccanismi di funzionamento. Il design di una barca a vela riflette in definitiva questa tensione progettuale di ricerca della condizione di equilibrio che regola il movimento in presenza di forze aerodinamiche e idrodinamiche.