mercoledì 23 marzo 2016

Ricordi bui: bullismo e violenza

Di Michael Perini
A cura di Enrico Longarini

Spesso se ne sente solo parlare mentre altre volte tutto è avvolto da un alone di mistero che ci porta a distogliere lo sguardo, ma purtroppo chi vive sulla propria pelle episodi di bullismo e di violenza non può semplicemente chiudere gli occhi e far finta che sia soltanto un brutto incubo; io nella mia vita sono stato vittima di violenza in un asilo di suore e di una associazione di bambini.
Bisogna stare attenti perché quando si parla di bullismo non ci riferiamo soltanto ad isolati atti di prepotenza perpetrati nelle scuole, ma con esso si intende quel comportamento violento che può portare a chi ne è vittima gravi danni sia fisici che psichici.
Ricordo che qualche tempo fa alcuni ragazzi del mio quartiere, dai sedici ai vent’anni,  avevano preso l’abitudine a prendersi ripetutamente gioco di me, sbeffeggiandomi e urlandomi contro parole dure e sprezzanti; prendevano in giro me ed il mio cognome ed io non sapevo come difendermi. Ritengo che i genitori di questi ragazzi non abbiano dato loro delle vere e proprie regole e così facendo hanno fatto in maniera che diventassero persone incivili senza il benché minimo senso del rispetto nei confronti degli altri. A quell’epoca si trattava di veri e propri atti di bullismo nei confronti di persone più deboli e forse un’educazione più severa non avrebbe fatto loro del male… Fortunatamente col passare degli anni le cose sono cambiate e dato che non sono una persona che porta rancore io e questi ragazzi alla fine siamo diventati amici.
Gravi episodi di violenza possono però essere perpetrati anche in quegli ambienti che dovrebbero combattere il disagio e il malessere. Alcuni anni fa frequentavo una colonia per ragazzi, un’associazione apparentemente corretta ed onesta, ma che in realtà tiene dei comportamenti davvero spregevoli nei confronti di coloro di cui dovrebbe prendersi cura: i bambini vengono continuamente picchiati ed obbligati a svolgere faticose mansioni fuori città e se si stancano rischiano di essere percossi e malmenati. La notte i ragazzi non possono neanche alzarsi per andare in bagno perché rischiano di svegliare gli educatori che anche in questo caso non esitano a mettere loro le mani addosso e di conseguenza accade sovente che si ritrovino a bagnare e a sporcare il letto;  anche in questi casi gli “educatori” non cessano di dare il meglio di sé ed obbligano i ragazzi a lavare le lenzuola la mattina presto. Questa associazione dovrebbe chiudere al più presto i battenti perché, oltre a commettere dei veri e propri reati, il rischio è quello di provocare gravi traumi nei ragazzi e nei bambini che dovranno scontarne le conseguenze per tutta la vita. Purtroppo l’associazione è tutt’ora aperta perché nessuno conosce o si azzarda a divulgare le atroci violenze che vengono commesse al suo interno e il manto di santità che avvolge questo luogo è rimasto fino ad ora intatto: il solo pensiero che dei poveri angioletti frequentino  ancora questo inferno mi fa stare male. Spero vivamente che questo mio messaggio arrivi alle orecchie di coloro che possono adoperarsi per far chiudere questo luogo di atrocità e mi auguro che questo mio sfogo possa essere d’aiuto a tutte le persone che come me hanno vissuto esperienze di bullismo e di violenza: ricordate, non siete soli.  

martedì 22 marzo 2016

L'amore secondo Michael Perini

Di Michael Perini

C'era una volta Michael, un ragazzo dai sentimenti fragili e sensibili che, prima della morte della sua cara nonna Maria, un dì si innamorò di una ragazza bella fuori ma cattiva dentro che non si degnò di considerarlo come amico neppure dopo la morte della sua nonna. Il fidanzato della ragazza era simpatico e socievole, ma un giorno ebbe alcuni problemi con la giustizia e finì in carcere. Nonostante la ragazza si fosse comportata male nei suoi confronti, Michael aveva un cuore d’oro e le stette vicino in quel momento di difficoltà, inoltre con compassione e sensibilità la rassicurò dicendole: non ti preoccupare, il tuo ragazzo tira avanti e ce la farà”. 
Michael non era un ragazzo che riusciva a portare rancore così, dopo qualche tempo, dimenticò il suo vecchio amore e si innamorò di un’altra ragazza; lei, a differenza dell’altra, era bella sia fuori che dentro e illuminava tutto con la sua dolcezza e la sua simpatia. Michael sognava che tra di loro potesse nascere qualcosa e anche se la ragazza si era lasciata da poco sperava che lei provasse i suoi stessi sentimenti. L’amore si trova dietro l’angolo e ti colpisce quando meno te lo aspetti; esso sboccia a primavera come un fiore a maggio e nel momento esatto in cui Michael incontrò la ragazza, qualcosa dentro di lui si fermò. Era contentissimo e quasi senza accorgersene fra sé e sé chiese a Dio di poterla incontrare di nuovo e ancora e ancora. Ogni volta che la guardava vedeva il sole e si sentiva girare come il suo “trottolino amoroso”.  Purtroppo i sentimenti di Michael non erano corrisposti, ma certamente questo non bastò ad abbattere il suo spirito. L’amore vero e proprio infatti c’è quando lo si incomincia a vivere e fino ad allora bisogna accontentarsi di ciò che si ha; l’amore capiterà quando dovrà capitare e non bisogna essere precipitosi o costruire inutili castelli per aria, un giorno l’amore arriverà e quello sarà il momento!

giovedì 17 marzo 2016

"Un problema di vita", il gruppo di mutuo aiuto norvegese

Di Noemi Mariani

“Benvenuti all’incontro…”, cosi hanno esordito i collaboratori norvegesi agli incontri tenuti a Oslo, con noi collaboratori italiani, per formarci non che confrontarci sul tema trattato, che è molto vicino all’IO di tutti noi, inteso come essere di se stessi rapportandosi all’essere comune: i GRUPPI DI AUTO-MUTUO-AIUTO.
Le motivazioni di sentirsi parte all’incontro erano molteplici ma strettamente unitarie e collaboranti fra loro: conoscere una realtà differente dalla nostra, per studi inerenti in psicologia, per comprendere meglio la collaborazione fra società e sanità norvegese, come comprendere meglio la cooperazione fra gruppi di autoaiuto e approfondire la progettazione del “gruppo di promozione”; su tale e ultimo punto vorrei spiegare cosa è un “gruppo di promozione”, attraverso i concetti e le parole dei partecipanti: “…un gruppo operativo, volto alla gestione dei gruppi di autoaiuto presenti sul territorio dove, sicuramente, ne fa parte l’esperienza personale sia di utenti esperti sia del personale sanitario, ove il concetto di salute pubblica è molto presente, favorendo punti di ascolto ed esprimendo che la salute di se stessi è di tutti ed è pubblica…”.
L’associazione norvegese definisce i propri gruppi di autoaiuto “Un problema di vita” giacché non riguarda solo la salute mentale, ma appartiene a tutti i cittadini poiché è un diritto pubblico e, attraverso collaborazioni con il comune, informano divulgando il concetto alla cittadinanza, ad esempio aggiornando periodicamente i medici di medicina generale sull’associazionismo degli utenti e sull’autoaiuto “…l’auto aiuto è rivolto, dove il cittadino è rivolto…”: dentisti, medici di base, fisioterapisti e cosi via…; lavorano con gruppi autorganizzati dove “ la sfida” ( definizione di problema in quanto è sentito come tale dall’individuo che partecipa hai gruppi), non è strettamente essenziale, il tutto è un “officina” dove si collabora ed una “palestra” del fisico e dell’animo rivolto al quotidiano di vita, indiscutibilmente libera da pregiudizi, anche se gli stili di vita sono diversi. Vi sono molti aspetti concordanti fra le due tipologia di gruppi ma un piccolo inciso sta nel spiegare la forte differenza che sta nella scelta della continuazione di un gruppo: nei nostri i gruppi sono APERTI in quanto è concesso, se il gruppo è a favore, la possibilità del l’entrata di un nuovo membro, nel modello norvegese la formazione del gruppo è CHIUSA, una volta formatosi non si può più appropriare di eventuali modifiche, quindi la durata temporale di un gruppo “norvegese” è molto più breve, in quanto, affrontate le tematiche e risolte fra i membri, cessa di esistere; come altra differenza vi è la negazione di potersi incontrare al di fuori del gruppo poiché considerato un modo per tutelare meglio la privacy dei membri; riguardante il momento dell’auto aiuto è “…essere pronto a cosa dire all’interno di esso…” poiché “…se non si vuole aiuto non si può pretendere di dare..” ( chi partecipa ad un gruppo è consapevole di avere un problema e di volerlo affrontare),ed in fine l’ascolto come arma di confronto e di riflessione personale ed anche come approccio ad aprirsi al gruppo con forte rapporto alla pari, l’obbiettivo è il medesimo per entrambe le forme di gruppi, NORMALIZZARE IL PROBLEMA.
Un gruppo di ricercatori ha condotto sul tema dell’autoaiuto una ricerca qualitativa finanziata dallo stato, poiché si tratta di salute pubblica, strettamente condotta sui gruppi, su come sono vissuti e il loro sviluppo, affrontando la nascita e la loro evoluzione nel tempo. un’incisiva motivazione, sentita molto dai norvegesi, è la riforma socio-sanitaria che si sta prestando a
nascere, nella quale sia il comune che lo stato sono coinvolti: si tratta di migliorare la cooperazione fra questi due enti con una meta in comune “il bisogno dell’utente”, centralizzando maggiormente le risorse e facilitando le prese in carico di utenti con entità più semplice (bambini e giovani) sul territorio, con l’appoggio di una buona rete sociale composta dal volontariato, l’associazionismo di utenti e famigliari (PIO) e pubblici cittadini, con una collaborazione di servizi più stretta e improntata fra la cooperazione tra utente ricercatore e personale sanitario.
I termini qui sotto riportati sono stati quelli maggiormente espressi, che hanno portato avanti l’esperienza di questo scambio culturale:
VOLONTA-SFORZO-RESPONSABILITA: per affrontare se stessi e gli altri.
ACCETTARE-TOLLERARE: le proprie debolezze. 

Creiamo per crearci

Di Noemi Mariani

Partire da un concetto basilare come la conoscenza di noi stessi che si fonda sul principio di esperienza la quale basata esclusivamente sulla propria percezione; quindi ogni elemento appartenente alla propria sfera psichica è conseguenza di quello che si è. Conseguito ciò noi trasmettiamo noi stessi all’esterno  a ciò che ci cironda, quindi a cio che ci appartiene, e ci rende quel che si è. Come poter essere e appartenere ad una propria esistenza concettualmente “sana”?
Be… semplice! Creare e modellare, nel tempo, il proprio percepito per poter trasmettere, comunicando, l’esperienza all’esterno. Tale gioco tra input e output è maestosamente interessante. Essere e appartenere sono la medesima cosa, ciò che si concatena non ha né un inizio né una fine, solo un unico reciproco sostegno. La conclusione è semplice e automatica: creiamo per crearci….è cosi mediocre al tal punto da tramutare il concetto realistico in un ipotetico e lunatico sogno. L’animo confuso, l’animo debole hanno travisato i fedeli sensi:  la vista ormai sciatta, il tatto troppo tremante, il gusto confuso, l’udito lontano e quasi ormai perso, l’olfatto troppo troppo condizionato…. La condivisione è il mezzo di sopravvivenza pratico e fattibile per una adeguata esistenza.  


Negli angoli del S.P.D.C.

Di Noemi Mariani

Soli verso da desolazione senza fine, echeggia, come aria al vento, il mio silenzio, unica fonte di docili note scandite dal fracasso del vento contro le persiane. Unica consolazione di infanzia: la Notte.

Sbraiti e lamenti sordi in questio luogo, solo accortezze di chi come noi ha visto per una volta se stesso.


Non solo il tempo cura le ferite di un animo trasandato, qualcuno in gesti a me inabituali, trascina la voglia di dare che il senso del tutto è esserci, qualcuno esiste, per restare a chi a perso il nesso dell’esistenza. 

Terapie al C.S.M.

Di Franca Izzo

Trovo che sia molto importante assumere le terapie presso i Centri di Salute Mentale: un po’ per abituarsi a questa nuova regola cosicché una volta responsabili della regolarità siano proprio i pazienti stessi a poter ritirare i farmaci senza delegare nessuno; può capitare infatti di provare vergogna nell’essere visti, riconosciuti ed infine giudicati. Il giudizio del passante poco conta al fine della guarigione e quello dell'amico, se vero e sincero sarà di comprendere e non beffeggiare o emarginare. Il giudizio che conta è quello degli operatori che ci seguono con attenzione e ci conoscono, essi sanno leggere nei nostri occhi, al di là delle nostre parole, il reale livello del nostro stato d'animo e sanno vedere oltre la maschera che spesso portiamo. Troppo spesso diciamo : "Tutto bene!" forse per convincere noi stessi e tirarci su di tono, ma l'operatore abituato a vederci saprà capire e ci potrà aiutare con solo qualche parola in più, sdrammatizzando la situazione insieme a noi o consigliandoci. Non si deve delegare tutto ai gruppi di Auto  Mutuo Aiuto perché anche all'interno di questi può capitare, per vari motivi, di non riuscire ad esprimere un nostro disagio. Per quanto sia felice del fatto di poter assumere le terapie io stessa in prima persona, mi trovo in disaccordo con le modalità di assunzione: ricette rosse o verdi ora poi ho sentito parlare anche di ricette elettroniche. Che Dio ci aiuti! Così tutto sarà sempre meccanizzato e tutto più facile da controllare, anche se in anonimato; sempre di più un semplice dato e non una persona, proprio il contrario di cui abbiamo bisogno: il vero contatto è quello umano perché l'uomo è un animale nato per socializzare e non per stare solo.


Ritorno al C.S.M.

Di Franca Izzo

Sono tornata a vivere la realtà dei Centri di Salute Mentale (C.S.M.) e non mi piace perché mi fa sentire malata; ma non una malata che può recuperare la sua salute e stare meglio, ma una persona che starà sempre peggio, che si sta cronicizzando senza alcuna via d'uscita, se non quella della morte.
Qual è la differenza tra il Frediani di oggi e il Poggiali di venti anni fa?
1) C'era più personale vicino alle persone e gli infermieri, gli educatori, inventavano sempre nuove attività per noi, per farci sentire meglio durante il lungo soggiorno giornaliero.
2) L'utenza non era tutta così catastrofica, potevamo interagire tra noi (anche se non c'erano ancora i gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto) e c'erano sempre scambi verbali reciproci tra noi e stimoli per fare piccole cose assieme e se qualcuno per una timidezza o un po’ d'insicurezza si vergognava partecipava comunque a distanza come osservatore curioso alle attività altrui.
3) Ci facevano sentire in un luogo nostro non da gestire ma da tenere in ordine per noi e per il rispettare le regole del buon vivere. Se qualcuno sbagliava chiunque di noi lo faceva notare e ,se la cosa degenerava, intervenivano gli operatori.
4) I medici e gli infermieri parlavano più spesso con tutti noi, inoltre si facevano più visite e colloqui col proprio medico di riferimento.
5) nella nostra vita c’era più comunicazione e c’erano meno persone isolate e pazienti silenziosi.
Oggi, invece mi sembra di stare nell'anticamera della morte stando anche attenta a non disturbare la professionalità di chi lavora sia medici che infermieri, che in teoria dovrebbero lavorare per noi.
Quest'anno poi non si è vista nemmeno una pallina di natale, un filo lucente o una candelina; eppure mi sembra di aver visto nella stanza degli infermieri un minuscolo alberello finto, tutto completo di fili luci e palline. Forse sarà perché a breve il C.S.M. si sposterà all'interno dell'ospedale, nei pressi dello Spedale Psichiatrico Diagnosi e Cura (S.P.D.C.) di fronte alle camere ardenti. Trasferimento o no comunque sarebbe stata la stessa cosa: inservienti che sbuffano passiamo perché loro lavorano: non sono perditempo come noi e hanno da lavorare, operatori riuniti nelle loro stanze a fare quello che devono fare mentre noi soli al piano terra ci troviamo a lottare con i nostri mostri da soli, perché se chiedi aiuto non ti parlano ma ti offrono un bicchierino di venti gocce per addormentarti un po’ di più. Tutti devono sempre fare qualcosa, tanto le persone inutili siamo noi, eppure se non ci fossero persone come noi loro sarebbero tutti senza lavoro e forse si capovolgerebbe la faccenda.
E mi chiedo dubbiosa, se è veramente tutta colpa dell'inadeguatezza della storica struttura o dei tagli fatti al sociale! Io resterò in attesa silenziosa, osservandomi ancora intorno per cercare di capire quello che forse ho già capito da tanto tempo.

UgualMente Livornesi

Di Franca Izzo

Il giorno 27 Febbraio 2016 a Livorno, presso il circolo A.R.C.I. di Coteto, si è tenuta un‘ iniziativa aperta a tutta la cittadinanza: UgualMente Livornesi, un incontro sullo stato di salute mentale della nostra città.
I temi principali della manifestazione, alla quale hanno partecipato numerosi medici, operatori dei servizi, autorità regionali e comunali, stampa, televisioni e associazioni. riguardavano il bisogno potenziare le Reti dei servizi e delle organizzazioni no-profit che, oltre a contrastare lo stigma e i pregiudizi associati alla malattia mentale, sono coinvolte nella promozione e nella tutela di quest‘ultima.
La manifestazione è stata organizzata dall'A.Vo.Fa.Sa.M., un‘associazione composta dai familiari delle persone che fanno utilizzo dei servizi della salute mentale, che negli anni con tenacia ha combattuto per la chiusura dei maniconi, in particolare quello di Volterra, lottando ostinatamente con gli enti pubblici affinché anche a Livorno fossero aperti adeguati centri diurni per l'accoglenza degli ex internati; l’obiettivo non era tanto quello di alleggerire il peso della continua assistenza al proprio caro che le famiglie si trovavano a sopportare, ma soprattutto quello di fare in modo che questi ultimi potessero svolgere piccole attività manuali e socializzare in un ambiente sempre aperti a tutti.
L’iniziativa dell‘Associazione A.Vo.Fa.Sa.M. ha permesso così ai pazienti di sentire nuovi stimoli di libertà e di crescita che hanno fatto sì che iniziassero a recuperare al massimo la propria cittadinanza dando vita anche ad una loro associazione, la Mediterraneo, presente anch‘essa alla manifestazione.
Si sono susseguiti molti interventi e relazioni da parte degli esperti in materia e alla fine c’è stato un accorato dibattito tra il pubblico. L’intervento di apertura è stato tenuto da Riccardo Bientinesi, Presidente dell'A.Vo.Fa.Sa.M che ha ricordato la chiusura dei manicomi con l'avvento della legge 180 di Franco Basaglia e il lavoro svolto da Margherita Lapini Mecacci, ex Presidente dell‘Associazione che lo ha preceduto.
Ha anche aggiunto come in passato vi fossero forti rapporti col Comune e la Provincia che purtroppo col tempo si sono interrotti e naturalmente si è augurato che questi rapporti potessero riallacciarsi.
Naturalmente non ci sono state solo belle parole perchè i problemi ci sono e sono sotto gli occhi di tutti: le strutture restaurate o costruite oltre venticinque anni fà necessitano di accurate ristrutturazioni, vi è infatti il rischio che venga perso tutto quel che faticosamente è stato ottenuto in passato. Bientinesi afferma anche come i pazienti non necessitino solo di farmaci per star bene, ma di un lavoro, una casa e di compagnie sane per una ripresa personale, così chiedendo aiuto, si rivolege alla ASL, al Comune.
Il secondo intervento è stato quello di Angela, una mamma che parlando col cuore in mano, spiega quanto sia avvilente non poter vedere alcun futuro per il figlio sofferente; guardandosi intorno chiede un qualsiasi tipo di aiuto, da quello ecclesiastico a quello pubblico e sanitario affinché questi ragazzi possano riuscire ad inserirsi in questa società. Angela chiede anche che sia creato un polo a Livorno che possa far scoprire le loro potenzialità, rendendoli una risorsa sociale e non un peso.
Il terzo intervento ha visto prendere la parola al professor Mario Serrano; egli dichiara di poter dare un contributo al pensiero di poter riattivare le Autorità che in passato hanno fatto così tanto e, considerando il fatto che molti denunciano come da dieci anni a questa parte le iniziative a Livorno si siano fermate, osserva come  il vero problema sia che questo effetto congelamento non si limiti alla nostra città ma si estenda all’intera nazione. Il prof. Serrano propone quindi un intervento di ristrutturazione, inteso come ricerca di nuovi metodi di emancipazione, infatti non solo i tempi, ma anche l’utenza è cambiata negli ultimi anni ed ha nuove esigenze completamente differenti rispetto al passato.
Successivamente è venuto il turno del professor Giannini il quale, con uno sguardo al passato, ricorda una Livorno all'avanguardia per quanto riguardava i servizi sociali e le iniziative, ma afferma anche come la manifestazione UgualMente Livornesi dimostri che non tutto non sia fermato veramente, certamente però è necessario che la struttura nazionale capisca l’errore dei tagli al sociale.
Dopo il professor Giannini la dottoressa Benedetta Aprea, volontaria dell'Associazione Mediterraneo ha spiegato l'importanza della socializzazione, specialmente per quelle che si sentono isolate. L’Associazione Mediterraneo negli anni ha firmato numerose convenzioni con la ASL al fine di concludere progetti educativi per i giovani e di socializzazione per i pazienti e ha costruito un solido gemellaggio con un cittadina Norvegese, sede di una importante università, che li vede spesso ospiti. Il confronto costante infatti, sostiene Benedetta Aprea, contribuisce notevolmente alla nostra crescita.
Le Associazioni di Salute Mentale norvegesi, aggiunge, hanno un notevole senso politico perchè là rivestono importanti ruoli a livello nazionale, il loro motto è infatti: "Niente su di noi senza di noi!"
Ha preso poi la parola Ina Dhimgjini, Assessore al Sociale, la quale sostiene come anche per coloro che si trovano a gestire l‘amministrazione sia importante che vi sia sempre qualcuno di più esperto in certi specifici argomenti, come possono essere quelli che riguardano la salute mentale. Ina Dhimgjini si sente vicina alle famiglie e comprende l'accanimento di chi ha delle necessità ma nonostante il passare del tempo non ha ancora ricevuto risposta  e sente sempre di più l’importanza del progettare e del lavorare assieme. Se ad oggi è stato interrotto questo sistema di collaborazione come nel passato, dobbiamo vedere come recuperarlo e capire che cosa sia successo per non ricadere in futuro nello stesso errore; conclude dicendo <noi ci siamo e nonostante la crisi non dobbiamo perdere questo entusiasmo>.
Dopo Ina Dhimgjini, Marco Cannito ha sottolineato la sua volontà di ripartire dalla rivalutazione del volontariato nonostante tutte le critiche che rischiano di emergere a proposito. Livorno negli anni passati fu il fiore all'occhiello per quanto riguardava i servizi sociali ed ora tutto si è fermato. Nonostante ciò, come Giannini, Cannito afferma come questo incontro non stia segnalare solo il problema ma sia anche un segno di speranza per il futuro per ripensare i servizi e rilanciare quelle che possono essere le nostre opportunità. Per fare tutto ciò naturalmente c’è bisogno non solo di risorse finanziare, ma anche e soprattutto di risorse umane. L'innovazione sta nel ricreare i tavoli per il recupero di una cittadinanza perduta perchè, come diceva Basaglia, "la malattia mentale è una malattia come tutte le altre ed ognuno di noi sente il bisogno di dare ciò che può alla società e dimostrare che è utile". Infine Cannito racconta di come una volta stesse accompagnando degli studenti in visita al centro Basaglia e  di come questi ultimi avessero un certo timore nei confronti di quel luogo, ma ha concluso riferendoci come tutti gli studenti, dopo essere entrati,  siano usciti entusiasti e felici non immaginando che quell‘esperienza potesse averli cambiati profondamente.
Un discorso così toccante non poteva non suscitare emozioni nei nostri animi, tant’è che qualcuno dalla platea si è alzato e lo ha ringraziato per le sue parole di speranza.
È intervenuto anche Alfio Baldi, ex assessore al sociale del PD che si rammarica del percorso che che era stato messo in piedi e conclusosi poi male, dato che dopo i corsi e i tirocini che erano stati organizzati per gli utenti avrebbe dovuto esserci uno sbocco lavorativo a completamento della propria autonomia che purtroppo non si è concretizzato. Baldi osserva come non vi siano ancora strutture adeguate, ma nutre speranze per il futuro.
Anche il sociologo Paolo Pini prende la parola per chiedere a tutte le Autorità di organizzare dei tavoli di discussione con le Associazioni affinchè possano capire attraverso la nostra esperienza in materia.
L'ultimo intervento è di Tiziano Petracchi, operatore del Poggiali che racconta di essere stato anche lui in Norvegia con gli utenti e di aver visto cose molto belle, di aver fatto delle buone esperienze con le Associazioni norvegesi che <non si lamentano come a Livorno ma interagiscono con le Autorità Territoriali>, <là le associazioni sono importanti e sanno farsi ascoltare; sarebbe bello che ciò accadesse anche da noi>.
Infine si è aperto un lungo dibattito tra pubblico ed esperti che hanno risposto alle varie domande per approfondire alcuni punti, ma anche tra il pubblico stesso vi sono stati scambi di pensiero e di esperienze personali. La manifestazione si è conclusa con un ricco buffet offerto dall'Associazione A.Vo.Fa.Sa.M. tra sorrisi e conversazioni più intime e alla fine, una volta tolte le sedie, non sono mancati neanche quattro salti in pista.

lunedì 14 marzo 2016

Pensieri

Di Simona Vannozzi

Restare per un attimo a guardare un punto fisso con gli occhi fermi a riflettere. Giri il tuo sguardo intorno alla tua camera da letto immersa dai libri accatastati e disordinati, che disordine c'è intorno! Oggetti qua e là, fazzoletti da tutte le parti, perché la sottoscritta sta sempre a tossire e a soffiarsi il naso: che noia! Pensi. Quanto tempo è trascorso e quanto ne è passato inutilmente. Ti senti annoiata e smarrita. Rifletti e nello stesso istante non vorresti essere sola come adesso. Avere accanto qualcuno che ti vuole bene che ti dice: ti amo! Magari anche una persona con la quale litighi spesso; tuttavia  la cosa più bella sarebbe avere un figlio e sentirsi chiamare mamma. Ecco. Tutto questo non esisterà mai. La famiglia che ho sempre sognato e voluto fortemente non c'è. Questo è stato il mio destino e la colpa non è di nessuno. Quante volte ho pensato ad un altra vita: un nucleo familiare con un marito ideale che ti ama tanto e dei bellissimi figli. Sarei stata all'altezza della situazione, ma chissà? Chissà che madre sarei stata? Rigida, severa, noiosa e ansiosa, oppure paziente buona affettuosa e in grado di comprendere i propri figli. Forse si, forse no chi lo sa. Credo che Dio mi abbia punito e non mi abbia voluto dare tutto questo. Il perché non lo so e non lo voglio più sapere, magari non sarei stata capace di affrontare una vita familiare. Ma che cos'è veramente la felicità? Qual è l'apice della serenità? Lo siamo veramente, siamo sereni con noi stessi e con la nostra coscienza? Quante volte ci guardiamo allo specchio mettendo a nudo le nostre priorità, chi siamo veramente, ma soprattutto cosa desideriamo? Chi può dirlo tutto ciò, forse si, forse no. La felicità per me significa svegliarsi la mattina con il viso sorridente pronta ad affrontare un nuovo giorno: insomma, riuscirsi a svegliare con il buon umore è già un traguardo. Regalare sorrisi a chi non ne ha più, parlare con le persone più tristi e più sfortunati di noi, dire ancora “Buongiorno e “Buonasera” alle persone che incontriamo vi sembra forse poco? Ma la cosa più bella è vedere il sole tramontare tutti i giorni e  nonostante tutto poter dire: siamo vivi. Siamo acqua che scorre dalla sorgente, siamo alberi e piante che perdono le foglie, siamo fuoco che arde tutti i giorni, siamo vento che spazia via ogni cosa, siamo vita. Siamo esseri umani. Individui che vivono, in modo diverso tra loro ma vivono. Vivere è la cosa più bella. Finché vediamo il sole sorgere ogni mattina, possiamo dire che viviamo. E finché saremo su questa terra ci rendiamo conto di quanto è preziosa la vita per ogni essere vivente. Il sole è vita è la vita è eterna.


Diario di un Viaggio in Egitto: Quarta Parte

Di Franca Izzo

Il giorno del rientro è stata Noemi a darmi la sveglia, era stata male e sembrava uno zombie, ma non riusciva a capire la causa del suo malanno.
Questo albergo “Horus Horuse” del Cairo era molto più bello, c’ero già stata e l’eleganza era presente in ogni suo particolare. Guardando dalla finestra la città aveva uno strano aspetto sotto l’insolita nebbia che rendeva ogni visione come in un sogno: palme, palazzi, ecc. un po’ meno i giganteschi cartelloni pubblicitari, di non so che cosa, ma dai colori sgargianti. “Noemi, Noemi, perché mi hai abbandonata? E ora con chi parlo di ciò che è intorno? Di ciò che vediamo? Non certo con il silenzioso e misterioso Cosimo, che è seduto vicino a me e a cui ho chiesto se conoscesse quelle chiese con i due campanili lunghi e sottili, finemente decorate e con le croci sopra.”

Di giorno era possibile vedere i caotici raccordi anulari a quattro corsie per senso di marcia, stracolmi di auto strombettanti e non solo luci in movimento, come quando siamo arrivati.
Lungo i viali palmati anche alberi con fiori gialli o rosa sfumato e, quella che ad Alessandria avevo preso per mimosa, in realtà aveva una fioritura viola chiaro. “Noemi, Noemi, se tu fossi sveglia accanto a me ti chiederei se quel tipo che batte sul prato con un sasso sta schiacciando i pinoli o sta disseppellendo un tesoro. Oggi per me tu sei un fantasma, un ectoplasma, per colpa dei farmaci.”
essendo un po’ sorda e seduta sola in fondo al pulmino, mi sentivo esclusa, perciò scrivo molto solo della natura e non del grigio dei palazzi ampiamente ricoperti di sabbia del deserto, seppur belli, che si vedono attraverso i finestrini.
Siamo arrivati all’aeroporto del Cairo e, scaricati veloci i bagagli dal pulmino, che riparte alla volta di Alessandria d’Egitto.
A noi invece ci attende un lungo iter burocratico per l’imbarco e quindi, ancora un po’ di shopping per finire gli ultimi pound, col dubbio di aver pensato un po’ a tutti, e se avessi dimenticato qualcuno, che non si offenda.
Adesso che la partenza è certa, sono più tranquilla, perché con i fatti della Francia mi era aumentata l’ansia, ma ora siamo qui pronti ad aspettare che apra il check-in per imbarcarci.
I gruppi conversano sereni e sorridenti, l’ambiente insonorizzato dell’aeroporto non ha nessun rimbombo di eco ed è molto silenzioso.
Noemi fa la barbona sdraiandosi sul pavimento o su più sedie è un po’ più sveglia ma non ce la fa a stare in piedi, poi mi chiede del bagno ma non ha voluto che andassi con lei, ha rimesso ancora.
Paolo teme che si tratti di un Virus e si offre di portare il suo bagaglio ma lei, orgogliosa, rifiuta tutto da tutti. La nostra cucciola si trascina le gambe spingendo con i piedi la sua sacca da viaggio e nel lungo labirinto per il check-in sono in molti a chiedere se ha bisogno di aiuto ma lei, quasi seccata, risponde “tutto OK”.

Finalmente si sale sull’aereo e sistemiamo il nostro bagaglio a mano ma, siccome sono posizionata davanti all’uscita di sicurezza sulle ali, non ci permettono di tenere ne’ borse ne’ giacche, così preso il sudoku, la matita, il taccuino ed i fazzoletti, pigiamo tutto il resto negli apposite cappelliere. Siamo decollati e dall’alto si vedono i grandi spazi quasi color mattone del deserto, ma per poco, perché la nebbia bassa non permette la visuale.
Sono seduta tra due giovani egiziani, e discreti pure, loro hanno tenuto solo il loro telefonino con cui giocare; però mamma mia, il decollo è stato buono ma l’aereo sembra non stabilizzarsi, vibra così forte che non riesco a scrivere dritta e tutta tremolante. Intorno a noi tante nuvole e niente sole.
Adesso l’aereo sembra si sia stabilizzato ed il volo è piacevole, speriamo di continuare così.
L’aria condizionata è un po’ troppo fredda e tutti aprono le loro copertine di paille, e ci sto pensando anche io, ma non l’ho fatto; ci distribuiscono gli auricolari per ascoltare musica egiziana, a me fa molto piacere sentire musica diversa, anche se per tre ore. L’operatore che ci ha consegnato le cuffie sembra sia lo stesso dell’andata mentre le Hostess da Roma, avevano il tailleur pantalone e la solita crocchietta, queste portano una casacca sopra i pantaloni ed il velo nero seppur il viso rimane scoperto.
Adesso il sole c’è e il cielo è celeste con piccole nuvolette bianche, ma sotto non si vede niente. Forse siamo troppo alti per vedere la terra, o forse più in basso c’è ancora la nebbia.
Io gioco silenziosa con il mio sudoku e ascolto la musica, è la terza volta che sento “Illy” e “Simmy”, chissà forse saranno nomi di donna, forse è il caso che cambi canale.
Tra i loro strumenti riconosco la fisarmonica, il pianoforte, strumenti a corda dai suoni più o meno scuri: forse viole e violini suonati con una tecnica diversa dalla nostra e flauti.
Le parole pronunciate contengono molte “L” ma mi viene anche il dubbio che sia fatto con uno strumento che si chiama sintetizzatore che imita tutti i suoni. Di certo non mancano le percussioni a dare ritmo a tutto. Anche se ieri mattina, che era sabato, dalla finestra del nostro albergo ad Alessandria, si vedevano oltre il muro di cinta di una scuola, dove i bambini e i ragazzi, divisi forse per classi, nel campo di calcetto davanti all’ingresso hanno fatto tutto un loro rituale di gesti e voci, battendo le mani e canti accompagnati da un timpano, un rullante ed una tastiera elettrica, prima di entrare a scuola, con a capofila i loro insegnanti. Prima i maschi, seguiti dalle femmine, prima i più piccoli e poi i più grandi che erano in un altro edificio laterale.
Le hostess portano il pranzo: un ottimo riso con bocconcini di pollo ma non posso dire altrettanto delle verdure cotte al vapore!!!
Il dolcetto invece è buono, pan di spagna farcito con crema al burro e the con latte.
La terra non si vede ancora, chissà dove siamo, c’è solo sole e cielo.
E’ l’ora del ricambio idraulico! avete mai tirato lo sciacquone in aereo?
È una cosa velocissima e forte, che par voglia risucchiare anche te, manco mi sono accorta se è scesa l’acqua.
Sudoku, sudoku e musica.
Adesso al di sotto, un po’ come in un sogno, si cominciano a vedere rocce nude e scuri boschi, ma niente mare. Boh!!!
Dai canali audio 1, 2, 3 e 4 sembrano quasi preghiere, 5, 6 e 7 sembrano canti di qualche concerto che fa musica popolare; gli altri fino al 10, musica più moderna con cantanti misti. Io mi sono divertita a spiare cosa ascoltano i miei compagni di viaggio. La prima traccia è quella che ho gradito meno, io ho girato le tracce 5, 6 e 7, chissà se potrò mai risentire questa musica.
La musica si interrompe ogni volta che il comandante ha da comunicare qualcosa in inglese.
Siamo scesi di quota infatti mi dolgono le orecchie e le montagne sono più nitide, comincio a distinguere corsi d’acqua.
Il dolore è più forte e le montagne più vicine e si vedono anche i centri abitati. Infatti dalla cabina ci comunicano che tra 10 minuti saremo arrivati a Roma.
E’ bello volare ma io non lo farei mai per evitare questi forti dolori alle orecchie, fitte anche date dall’abbassamento di pressione atmosferica.
Stiamo virando ed è come se l’aereo ci cullasse e sarebbe bello: si vedono campi arati, orti o prati verdi e le scure chiome degli alberi; adesso invece vedo solo l’ala sinistra. Che bello ora il mare con il sole che vi si riflette. E’ questo il bello del volo, ti fa ammirare l’ampiezza di tutto il bello del creato che quotidianamente calpesti senza farci caso. Chissà cosa avrà visto dallo spazio Samantha Cristoforetti, la prima astronauta donna italiana: un puntino lontano dove ci sono i suoi affetti più cari. Ecco abbiamo già toccato terra, il comandante parla ma non certo per me, che guardo gli altri aerei parcheggiati attorno, capisco solo che ci ringrazia per aver volato con la loro compagnia.
Bell’atterraggio, non me ne sono neanche accorta, ma al momento di aprire lo sportello della cappelliera, la roba pigiata a forza è caduta pericolosamente in braccio a me. Per fortuna perché il trio di piramidi che ho comprato, pesa molto.
Pian piano abbiamo districato tutto il resto e siamo scesi.
Di nuovo una lunga fila per le routine di rimpatrio, un caloroso e speranzoso saluto tra i vari gruppi e ci dividiamo di nuovo, ognuno per la propria strada o il suo volo. La nostra attesa per Pisa è lunga: telefonate e messaggini per avvertire che siamo rimpatriati, una merendina, riordinare tutte le carte e poi attendere ancora.
Qua l’aeroporto di Roma non è come al Cairo, c’è un forte riverbero che rende tutto un brusio attorno, grandi rumori di veicoli elettrici ma soprattutto le voci argentine dei bambini che scorrazzano gioiosi avanti e indietro sotto l’occhio vigile dei genitori. Anche le loro voci sono gioia per il mio cuore e rendono meno noiosa l’attesa.
Finalmente annunciano il volo per Pisa, ancora una lunga fila per l’imbarco. I bagagli vengono lasciati in fondo alla scaletta e ci dicono che li ritroveremo li all’atterraggio.
Appena vede l’aereo, Paolo dice “a me non piacciono gli aerei con le elichine!”
In effetti oltre ad essere più piccolo hanno le ali sopra i finestrini e non sotto. Beh Pisa-Roma è andata bene, perché non dovrebbe funzionare al contrario? E poi anche l’aereo grande quando è partito dal Cairo non trovava la sua stabilità, è comunque andato tutto bene poi.
Siamo già in volo, le luci dell’aeroporto di Fiumicino si allontanano assieme a quelle della città, si fanno più piccole e poi più nulla, forse siamo sul mare?
Accanto a me c’è Giuseppe D’agostino, con lui posso scambiare qualche parola, mi fa più compagnia di quei belloni egiziani.

Il comandante ci dice che si sta vedendo l’isola d’Elba, ma Giuseppe che è vicino al finestrino dice che sono solo piccole luci distanti.
Di nuovo il comandante ci annuncia che stiamo arrivando a Pisa, mancano 5 minuti, si scusa per il ritardo dovuto all’attesa delle coincidenze di altri passeggeri che volano con l’Alitalia.
Ricomincia il dolore per me, segno che scendiamo di quota, infatti sono ben visibili le luci  di Livorno e , dopo essere ripassati sul mare, le luci dell’aeroporto ed un atterraggio dolcissimo.
In fondo alla scaletta i nostri bagagli ad aspettarci, ma non è ancora finita. Di corsa al parcheggio a prendere l’auto di Paolo, saliamo velocissimi e via alla volta di Livorno, dove il più che gentile Paolo, ha riaccompagnato tutti a casa prima di andare alla sua Rosignano.
Lo scrivere ed il Sudoku sono stati i miei passatempi di tutto il viaggio.

giovedì 10 marzo 2016

Alla scoperta di Artimino

Di Simona Vannozzi
A cura di Enrico Longarini

Erano diversi mesi che non partecipavo alle uscite del fine settima insieme ai ragazzi dell'Associazione Mediterraneo, ma questa volta mi sono unita anch’io e siamo partiti in direzione di Artimino, una piccola frazione di Carmignano (Prato) per visitarne il museo archeologico. Sono rimasta molto stupita di scoprire con i miei occhi questo gioiello sperduto della campagna toscana. Il Museo Archeologico mostra ai visitatori la storia del centro etrusco di Artimino ed espone numerosi reperti restituiti dal territorio circostante. Ma torniamo alla nostra gita: sebbene si tratti soltanto di un piccolo paese, appena arrivati ad Artimino, ci siamo perduti tra i deliziosi vicoletti  a cercare il museo e dopo aver fatto il giro del paese lo abbiamo trovato nella piazza principale. Presentandoci come Associazione Mediterraneo Onlus, i gestori del museo non solo ci hanno offerto la possibilità di entrare gratuitamente, ma ci hanno anche fornito una guida che ci accompagnasse durante la visita. Il  percorso museale si snoda su due piani: quello superiore è dedicato al “mondo dei vivi” e ai ritrovamenti effettuati negli insediamenti di Artimino e di Pietramarina mentre quello inferiore “al mondo dei morti” e a tutti i reperti ritrovati nella necropoli di Artimino.
 La guida è stata molto gentile e paziente e ha spiegato a tutti noi le origini della civiltà etrusca del territorio circostante e di come essa si sia evoluta e sviluppata nel corso degli anni. Tegole, vasi, anfore e pesi da telaio caratterizzano la prima parte della visita, quella dedicata al “mondo dei vivi”, ma è nel “mondo dei morti” che si scoprono le vere meraviglie del museo. La prima cosa che salta all’occhio una volta discesi in questo “mondo dei morti” sono le tombe della necropoli di Prato Rosello, in special modo la tomba del “Guerriero” della fine del VIII secolo. a.C. Naturalmente si tratta di una ricostruzione, ma gli oggetti al suo interno sono in tutto e per tutto autentici, dagli oggetti ornamentali alla lancia, simbolo di forza e vigore che non può far altro che farci tornare alla mente il celebre Achille e le sue eroiche gesta. La guida ci ha spiegato come il culto dei morti avesse una grande rilevanza fra gli etruschi ; essi  infatti avevano una forte credenza nell’aldilà e le veglie funebri in onore dei propri defunti si trasformavano in vere e proprie celebrazioni sacre. Gli etruschi della zona di Artimino erano soliti bruciare i corpi dei cari deceduti e le loro ceneri venivano poste in urne di ceramica che poi venivano depositate all’interno delle tombe. Le sepolture erano inoltre riempite con numerosi oggetti ornamentali molto preziosi, il quale ritrovamento può darci importanti indizi riguardo la condizione sociale del defunto (come la lancia e le armi di bronzo e di ferro ritrovate nelle tombe dei guerrieri). Il museo ha allestito numerose vetrine in cui esibisce questo tipo di reperti, perciò abbiamo potuto ammirare lo splendore dei dettagli e la maestria con cui furono realizzate sculture di ceramica, di terracotta e di bucchero (materiale molto popolare fra gli etruschi), piccole brocche dove venivano conservati i profumi, gli oli e le essenze, ferretti per capelli, fermagli per le tuniche indossate dagli uomini ed infine orecchini e gioielli d’oro. Tra i numerosi reperti quelli che mi hanno maggiormente colpito sono stati una straordinaria coppa di vetro turchese, il cratere etrusco a figure rosse ed alcune placchette d’oro e d’avorio che rappresentavano figure sacre femminili, maschili ed animali. Tuttavia il vero e proprio “gioiello” di cui il museo va orgoglioso è il famoso incensiere di bucchero. Si tratta di un oggetto unico e molto particolare composto da cinque parti incastrate l’una con l’altra e decorato lungo tutti i suoi bordi. 
Una volta terminata la nostra visita al museo ci siamo rilassati e, immersi nel silenzio e nella tranquillità del paese, abbiamo pranzato nella piazza principale dalla quale potevamo godere di un fantastico panorama. Tutto intorno a noi infatti si estendevano i verdi campi della campagna toscana illuminati da un caldo sole che faceva capolino tra le nuvole. In lontananza potevamo anche vedere la famosa Villa Medicea che, situata su un poggio poco distante dal paese, domina e sovrasta l’intero territorio di Artimino così, prima di ripartire in direzione di casa, abbiamo voluto avvicinarci per poterla osservare meglio. Un lungo viale alberato ci ha condotto ai piedi dell’imponente villa (conosciuta anche come la Ferdinanda o Villa dei cento camini, ma purtroppo abbiamo potuto solo ammirarla dall’esterno in quanto sede  di congressi ed eventi speciali. È stata una domenica serena è molto divertente, ma soprattutto una giornata all'insegna della cultura e dell’archeologia etrusca. Nelle prossime uscite mi piacerebbe molto visitare la Villa Medicea e forse chissà scoprire tutte le storie curiose ed interessanti che custodisce…  



lunedì 7 marzo 2016

Ritorno in barca

Di Alba

“Né di Venere né di Marte, né si sposa né si parte, né si da principio all’arte”. Così recita un proverbio imparato quando ero ragazzina; non sono mai stata superstiziosa ma ho sempre tenuto fede a questa massima almeno fino al 5 febbraio scorso quando, dopo tanti anni, sono tornata in barca per la gita organizzata dall’Associazione Mediterraneo. Inizialmente ero un po’ titubante ma alla fine ho preso la decisione di prendere parte all’uscita e a me si è unita Vanusia, una giovane di origine brasiliana anche lei alle prime esperienze con le gite dell’Associazione. Più tardi ho così confermato a Paolo Pini che sulla barca ci sarebbero stati due navigatori in più. L’idea di vedere l’imbarcazione ma soprattutto il pensiero di poter salire e stare con gli altri mi eccitava molto così ho atteso con trepidazione il giorno della partenza e nei giorni precedenti sono letteralmente impazzita nello scegliere vestiti, borse e oggetti che avrei potuto portare sulla barca. A dirla tutta ero un po’ preoccupata per il mare mosso e il conseguente mal di mare: avrei fatto proprio una brutta figura se mi fossi sentita male. Quando è arrivato il fatidico giorno della partenza ho cambiato non so quanti capi d’abbigliamento, ho tirato fuori borse più o meno grandi e la mia casa sembrava un vero e proprio campo di battaglia. Ho provato moltissimi capi d’abbigliamento perché temevo di soffrire il freddo e di bagnarmi con gli spruzzi del mare, invece per quanto riguarda le scarpe non ho avuto nessun indugio, dato che potevo tranquillamente indossarle anche sopra la barca (nel mio ricordo di tanti anni fa era vietato salire a bordo con le scarpe e a causa dei postumi di un’emiparesi non riesco più a camminare scalza!).  Arrivata al porto ho trovato Paolo Pini ad attendermi sulla banchina il quale poi mi ha scortata e sorretta fino alla barca. Ero proprio emozionata come una bambina al suo primo giorno di scuola. Salita sulla barca mi sono subito seduta su di una specie di panca di legno sverniciato a stecche che si estendeva da poppa a prua. Mi trovavo seduta vicino a Meri e Vanusia mentre Noemi si trovava di fronte a me.
Non appena Paolo Pini si è messo al timone è iniziata l’avventura. Avevamo il vento a favore, soffiava una leggera brezza così ho chiesto di navigare verso sud in maniera da vedere e far vedere a tutti gli altri casa mia. I baldi giovani a bordo hanno quindi alzato un’enorme vela triangolare bianca con una balza alla base nera e ci siamo lasciati condurre dal vento. Il mare era mosso e le onde lunghe facevano ondeggiare la barca ma il timoniere è riuscito abilmente ad evitare grandi ondeggiamenti e oscillazioni. Io parlavo molto, ma non ero agitata, anzi mi sentivo tranquilla, protetta, stavo bene e osservavo il panorama della costa e il mare che si estendeva tutto attorno a noi. Al ritorno, avendo il vento contrario, siamo stati costretti a fare uso del motore così tutte le mie parole sono state soffocate dal rumore del motore. Tutto attorno a me mi ha profondamente colpita, il panorama certo, il vento e il mare, ma soprattutto sono rimasta meravigliata e affascinata dai movimenti sicuri dei ragazzi, che si muovevano precisi agli ordini di capitan Paolo. Al momento del rientro in porto il motore ha iniziato a fare i capricci e ci ha abbandonati. Naturalmente non ci siamo lasciati intimorire da questo imprevisto e abbiamo avvertito la Capitaneria di Porto. In nostro soccorso sono anche venuti alcuni pescatori che ci hanno aiutato ad accostare la barca alla banchina mentre a bordo i ragazzi e Noemi si davano un gran da fare con corde e arnesi vari. In tutto questo trambusto il povero Paolo Pini, scendendo da poppa, è disgraziatamente scivolato in acqua rimediando per fortuna solo una gamba infradiciata. Prima di me sono scesi tutti i ragazzi poi è stata la volta di Meri che ho ammirato per l’agilità e la sicurezza nello scendere, quando poi è venuto il mio momento ho sentito ogni mia estremità congelata e indolenzita così mi sono data una scossa e la circolazione ha ripreso a funzionare. Toccava a me: Noemi, anche in  questa occasione, mi ha stupita ma soprattutto mi ha aiutata molto e mi ha sorretta. Un’affluenza di pensieri, un vortice di emozioni, di gioia, di serenità mi ha invasa, avrei voluto manifestare gratitudine, avrei voluto stringerli tutti in un forte abbraccio, ma mi sono limitata ad un semplice “grazie”. Infine si è avvicinato Paolo con la gamba gocciolante: non so se ho ringraziato anche lui. Mi sono voltata ed ho visto il mio autista avvicinarsi, mi ha presa sottobraccio e mi ha riportato con Vanusia all’auto. L’abbiamo accompagnata a casa e anche lei era rimasta molto contenta della gita, poi sono tornata a casa mia. Questa è stata un’esperienza bellissima e spero ci sia modo di farne altre in futuro. Nel frattempo andrò alla ricerca di un libro per conoscere almeno in minima parte i termini nautici ma venendo da Firenze, sono una donna di città, mica di mare! Questo per me e Vanusia è stato una sorta di “battesimo del mare” e ringrazio di cuore a tutti per tutto ciò che di meraviglioso mi avete offerto. Vi abbraccio tutti caramente.

La fiorentina che si avvia ad essere “navigata navigatora”.