Sei mai
stato nel parco di via Ricci?
Quel piccolo
parco pieno di margherite che sembra, da quante ce ne sono, rendano l’estate
inverno, fresco e bianco; forse è per questo che lo hanno chiamato “Parco
Primavera” e lì al tempo non è consentito entrare, come ia cani alle biciclette. Se fai caso, appena entri
dall’entrata principale, alla tua destra c’è l’albero più bello, un melo,
sempre in fiore come le margherite ai suoi piedi. Sai, un tempo, quel parco non
era così fresco, non c’era quella distesa di bianco vivo, ed il melo sembrava
perso nella desolazione senza fine. Avevo la tua età, o poco più di sei anni.
Il tempo era diverso, così la città e la vita. Ricordando quel triste melo,
pensavo che solo io riuscivo a capirlo, forse perché i più grandi fissavano gli
occhi alle nuvole, nell’attesa di vedere la fine dei lampi, il cielo sereno.
Crescendo, non smisi di andare a trovare il dimenticato albero, poiché, dopo i
primi incontri, divenni il suo unico amico di giochi, in quanto ero il solo a
scorgere le lacrime nelle crepe. Adesso nella mia vita di oltre settantenne, mi
sorprendo vedendo il melo in fiore e sorrido pensando alla semplicità di quel
che era quel bambino, unico e solo verso il melo, più che unico era il solo non
indifferente alla dura realtà.
Questa breve
storia è nata per caso, come per caso si prende un libro fra mille, per
ammazzare la noia di un viaggio, dove la scelta dipende dal titolo,
tralasciando il suo reale contenuto.
L’essere
consiste nel venir percepito o il venir percepito comporta un essere? Il
bambino è triste perché vede la degradazione del melo o la realtà del melo si
specchia nella semplicità dell’io? Esse est percipi racchiude l’dea con cui
Kant, ed in seguito Schopenauer, posero in dubbio l’esistenza del reale mondo
esterno, attribuendone la rappresentazione al soggetto, per cui la realtà
diviene priva di esistenza autonoma. Una morte creata dal limite del risveglio
della sua concezione vive e risplende in un parco letterale e in un melo, che
ha, alle radici, margherite bianche dai petali in ascolto.
E l’uomo?
Siamo
individui pensanti, persone dotate di una propria volontà, sentimento e
autocoscienza; siamo la rappresentazione dell’essenza del genere umano.
Siamo esseri
caratterizzati dallo sviluppo straordinario del cervello, dalle facoltà
psichiche e dall’intelligenza, dall’uso esclusivo del linguaggio simbolico
articolato e dalla conseguente capacità di fondare, tramsettere e modificare.
Siamo volti
posticci di materiale vario, intenti ad esprimere determinati sentimenti.
Siamo ciò
che appare, mai in contrasto con ciò che è apparenza.
Siamo il
tutto. Ma non siamo niente, anzi, siamo lo specchio tracendentale del mondo.
Siamo
persone distorte:
accumuliamo,
ammucchiando e mescolando nell’essere ogni attributo a noi rivolto, modificandolo
e rendendolo proprio ed unico.
È possibile
che la parola”Persona” abbia molteplici sensi diversificati tra loro, tuttavia
un senso biunivoco racchiude la molteplicità di un’unica identità. Kant,
nell’”Antologia pragmatica” definisce la “Persona” come unità di coscienza
persistente, l’uomo è l’unico essere partecipe di se stesso durante l’intera
continuità del suo tempo. Un concetto di persona inteso come “sbocco” verso il
proprio mondo, una relazione con sé, ossia come conoscenza di sé: l’io, il sentimento
che ogni individuo ha della continuità della propria esistenza; il Principio
d’Identità, che annuncia: cio che è, è, ciò che non è, non è, ovvero ogni
essere è identico a se stesso; la perfetta uguaglianza.
Rapportare
l’io alla formazione della propria identità, correlando il tutto in un fluido
dialogo con se stessi, diviene il pilastro concettuale che ha assillato le
menti e che la letteratura, l’arte e la musica hanno messo a nudo, sviscerando
l’assenza profonda dell’uomo.
Nel suo uso
classico greco e latino, “Persona”
indicava la maschera, atteggiata ad un particolare stato d’animo, come ad
esempio collera, paura, felicità, che gli attori portavano in scena per
rappresentare visivamente il Ruolo che interpretavano. Quindi in principio, il
termine esprimeva ciò che si vuole apparire, ma non si è.
Lo studio
dell’interiorità psichica dell’individuo, nel teatro, in particolare il teatro
del 900, assume il ruolo di esplicazione critica della relazione tra uomo e
società, l’io e la struttura con le sue infrastrutture (come Kant schematizza
la società). La vita è una commedia, quindi la vita può essere portata sulla
scena: è il momento del “teatro nel teatro”, della trilogia pirandelliana: in
“Sei personaggi in cerca di autore” l’autore sparisce ed i personaggi si
muovono senza la sua mediazione, il dramma familiare è censurato dalle
convenzioni sociali, proprio perché è vero dunque irripresentabile; da qui si
passa alla persona che si da “personaggio” in “Enrico IV”, lì la denuncia è
rivolta all’assurda pretesa, da parte della società, di guarire quelle malattie
che essa stessa ha provocato; infine in “Uno, Nessuno e Centomila” il radicale
rifiuto dell’assetto sociale trova la soluzione in una irrazionalistica fuga
dalla natura, un’evasione dell’irrazionalità, rifiutando l’inserimento nella
realtà storica fondata sulla famiglia, il lavoro e il denaro.
Il dilagare
nell’irrealtà è la soluzione novecentesca ai mali sociali che comportano
negativamente la dissolvenza dell’identità e dell’unità dell’io; nascono le
malattie dello spirito e la psicopatologia.
“La malattia
non è un oggetto naturale ma un processo” (K. Jaspers), è un decorso la cui
induzione e risoluzione è infinita se rivolta al singolo, poiché infinite sono
le interpretazioni agli infiniti input a noi tramessi, i quali ci si
prospettano fin dalla nascita, fin dalla prima immutabile formazione
dell’essere, dell’io, della propria identità. Dico immutabile ma perennemenete
in mutazione a causa del nostro “vizio” moderno di gettare il fisso sguardo all’esterno,
perdendo e non acquisendo l’uso della coscienza persistente, della perfetta
uguaglianza, tralasciando che, a livello inconscio, noi non siamo mai gli
stessi; noi siamo la maschera del mondo, della società, della cultura, della
famiglia, noi siamo l’ignoranza della nostra esistenza, il conformismo della
vita.
Forse è
troppo affermare che non siamo “niente”, ed è grande il rischio di cadere in un
profondo pessimismo, in un desiderio inconscio di toglierci una vita che non è
mai stata nostra, ma dell’epoca.
Adesso è
consono, nello scrivere, gettare la propria soluzione; la soluzione universale
ad un problema esistenziale. Mi limiterò, per mancanza di inventiva, a citare
la chiarezza della “Continuità” di Whitman, aggiungendo che l’ascolto e la
lettura sono un buon inizio per vedere e vedersi vivere del mondo:
Nulla è mai veramente perduto, o può essere perduto,
nessuna nascita, forma, identità – nessun oggetto del mondo,
né vita, né forza, né alcuna cosa visibile;
l’apparenza non deve ingannare, né l’ambito mutato confonderti il
cervello
Vasti sono il tempo e lo spazio – vasti i campi della Natura.
Il corpo lento, invecchiato, freddo – le ceneri rimaste dai fuochi di un
tempo,
la luce degli occhi divenuta tenue, tornerà puntualmente a risplendere;
il sole ora basso a occidente sorge, costante per mattini e meriggi;
alle zolle gelate sempre ritorna la legge invisibile della primavera,
con l’erba e i fiori e i frutti estivi e il grano.
Walt Whitman
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