Di Alba
La
nostalgia è un sentimento umano e profondo; esso significa provare un flusso di
emozioni che provengono dal nostro passato, come il piacere, la tristezza, la speranza e la malinconia. La nostalgia, qualora ci faccia comprendere che
il passato non ritorna, può essere visto come un sentimento positivo perché ci
aiuterà a vivere con serenità sia il presente che il futuro. Purtroppo però se
così non viene “vissuta” essa può sfociare in una patologia. Ho fatto questa
premessa perché proprio la nostalgia è affiorata in me da svariati giorni;
stavo facendo ordine nella mia libreria e mi sono soffermata a rileggere
vecchie agende e un mio vecchio scritto. Ho riletto un mio scritto datato 1991
intitolato “La storia della mia vita, incredibile ma vera”. L’avevo scritto a
mano dopo qualche anno trascorso tra esperienze di ricoveri e psicoterapie. La narrazione della mia prima esperienza “toccante” come volontaria C.R.I Mi
ha totalmente riportata al passato. Era il 1971 quando, dopo aver
frequentato un corso alla C.R.I., avevo iniziato a frequentare in ospedale il
reparto di ergoterapia e successivamente quello di neurochirurgia. Qui erano
ricoverati molti giovani paraplegici e semiparalitici che provenivano perlopiù da altre regioni
d’Italia, specialmente dal meridione. Restavano ricoverati per diversi mesi
quasi sempre da soli, senza parenti o amici ad assisterli e il mio compito consisteva
nel far loro compagnia e svolgere per loro alcune commissioni che da soli non
avrebbero potuto fare. I “casi” da seguire venivano presentati con un accenno
alla situazione clinica dalla suora caposala di reparto, Suor Graziana e il
primo caso in cui mi imbattei fu molto particolare: si trattava di un ragazzo
di ventisei anni, Riccardo ed era un ragioniere di Prato che purtroppo era
rimasto paralizzato dalla vita in giù a seguito di un errore
durante un intervento chirurgico. Riccardo era consapevole del motivo della sua paralisi
e così aveva sviluppato un tale odio nei confronti di medici e paramedici che
spesso, al loro ingresso in camera, lanciava loro tutto ciò che gli capitava
sotto mano, libri, bicchieri, bottiglie… era un paziente non paziente: comprensibile!
Con gli
occhi di adesso mi rendo conto di come oggi potrei riuscire a comprendere
meglio il suo profondo disagio dato che anche io, per qualche anno, mi sono
trovata a vivere un’esperienza di semiparesi.
Consapevole
dell’astio di Riccardo nei confronti dei dottori, mi presentai a lui
informandolo subito del fatto che non fossi né un medico né un paramedico, ma un’insegnate
di scuola materna che occasionalmente faceva la volontaria e che il motivo per
il quale indossavo il camice era l'obbligo impostomi dall’ospedale. Durante i
nostri incontri io parlavo di me, del lavoro che facevo, dei miei problemi
familiari ed esistenziali, parlavo di ciò che avveniva fuori dell’ospedale, ma
di fronte a me trovavo un interlocutore muto ed impassibile; non una parola,
non uno sguardo, non mi degnava minimamente della sua attenzione! Quante
giornate, settimane, mesi trascorsi a parlare, a monologare con un “muro”! Ricordo
come a casa la sera a letto mi ritrovassi a piangere e a pensare a come poter istaurare
un qualsiasi tipo di dialogo con lui. Ero certa di fare del bene, anche perché
tutti gli altri volontari prima di me si erano arresi dopo solo pochi tentativi. Io volevo farcela
a tutti i costi, mi dispiaceva troppo vederlo sempre triste, solitario e chiuso nelle sue
letture. Pianti, sofferenze, sudate, sforzi per arrivare a scalfire
quell’iceberg che mi trovavo d’innanzi; cosa potevo fare? I comportamenti
degli altri che avevano fallito prima di me erano stati caratterizzati da una
vena pietismo, ma la mia “tattica” per quanto diversa non raccolse il successo
che mi ero aspettata. Per quanto il cuore mi si stringesse ogni
volta non ho mai accennato alla sua infermità, lo trattavo come un ragazzo
qualunque, senza menomazioni e come tale lo informavo di ciò che succedeva
fuori da lì; gli raccontavo anche episodi ridicoli di come riuscissi a saltare
gli ostacoli “senza cavallo” atterrando in vaste pozze fangose… ma niente, nessuna
risata, nessun accenno di voler istaurare un dialogo!
Finalmente un giorno la mia caparbietà fu premiata perché riuscii
a scovare quella scintilla che mi permise di “scongelare il ghiacciolo”: il
calcio. Riccardo leggeva sempre giornali sportivi e la domenica non staccava il
suo orecchio dalla radiolina. “Mi puoi spiegare come funziona il calcio? Non ci
capisco niente” Sguardo bieco, un abbozzo di sorriso, uno sguardo dal basso
verso l’alto ed era fatta! Cominciò a spiegarmi le regole, ma molto presto si
accorse che per il calcio ero negata e che in effetti mi importava ben poco di
conoscerlo. Lo capì molto presto, era molto sensibile ed
intelligente e così i miei lunghi monologhi divennero argomenti di
conversazione e l’iceberg si trasformò in un interlocutore acuto, simpatico,
frizzante e in un caro amico anche per gli altri pazienti. Riccardo inoltre
aveva una piccola e vecchia macchina fotografica e ricordo come si dilettasse a
fare scatti agli uccellini che beccavano le briciole sul terrazzo del reparto;
io mi occupavo di portarle a sviluppare e insieme commentavamo le sue foto,
dato che anche io stavo iniziando ad appassionarmi alla fotografia. I medici un
giorno programmarono di trasferirlo a Milano ed io lo aiutai anche ad ottenere tutti
i documenti necessari per il trasferimento e per un lavoro nell’immediato
futuro. Prima di partire per Milano però, all’inizio del 1975, fu trasferito a
Marina di Massa per nuove cure e per quanto si trattasse di una struttura sul
mare e fosse ben attrezzata si trattava di un luogo molto triste. Un giorno andai a
trovarlo e fu un miracolo se riuscii a tornare a casa illesa, infatti mentre
guidavo avevo fissate in mente le immagini degli ospiti di quello squallido
ricovero. Lui soggiornò a Marina di Massa fino al 1978 e per tutto quel tempo mantenemmo
uno stretto contatto epistolare (conservo ancora le sue simpatiche lettere,
l’ultima datata gennaio 1978). Questa bellissima, vera, pura e semplice
amicizia si è quindi protratta per oltre cinque anni ma poi all’improvviso fu
il silenzio. Lo avevano trasferito a Milano e al CTO nessuno seppe darmi
ulteriori informazioni. Ho continuato comunque a fare volontariato con persone
con problemi fisici e psichici perché ciò mi ha dato e continua a darmi grande
gioia, la gioia immensa di essere riuscita a trasformare un pianto in un sorriso, una chiusura in un’apertura, un
isolamento in un gruppo affiatato, un additamento cattivo e giudicante in una
corale accoglienza “senza etichette”.
Per ME un sincero caldo altruismo che però diviene per
l’emozione gratificante ricevuta quale ricompensa.
Alba
La nascita di un nuovo giorno migliore.