lunedì 11 agosto 2014

Periplo dell'Elba in kayak

di Claudio Iozzo



La squadra



Chi si trova per la prima volta davanti a Paolo Pini ha come l’impressione che quel gigante di quasi due metri sia sempre alla ricerca del giusto rapporto con le cose e con gli uomini intorno a lui. Nonostante la statura si muove con leggerezza e la voce dal tono basso è come arricchita da una nota infantile e melodiosa che la rende cortese e rassicurante. E’ lui il capo della spedizione. Accanto a lui c’è Carlo, lo scout, esperto di Kayak e grande conoscitore del territorio. Quando è in azione parla poco , ma osserva in continuazione. 
Paolo e Carlo formano una coppia efficiente. Quando c’è da decidere è raro che siano d’accordo, battibeccano a lungo, poi, quando prendono una decisione, l’azione li unisce e diventano tutt’uno. Ricordano un po’ Tex Willer e Kit Carson anche per il modo bonario con cui si sfottono di continuo. 
Salvatore è il cambusiere. E’ fondamentale per il gruppo, è colui che assicura alla spedizione acqua e alimenti, vale a dire il carburante per procedere. Si muove su un furgone e nei luoghi prestabiliti appare all’ora di pranzo o di cena. Deve conoscere non solo le strade dell’Elba, ma anche i sentieri scoscesi che dalle strade portano giù nelle insenature meno frequentate dove approdano i Kayak. Lo si riconosce già a tre, quattrocento metri dalla riva, saltellare tra gli scogli con l’agilità di un furetto, mentre si sbraccia e scuote la coda di cavallo a destra e sinistra.




 L’imbarcazione



Il Kayak sarà per cinque giorni, la nostra casa, il nostro mezzo di spostamento. Per cinque giorni il nostro universo ruoterà intono a questa canoa di fibra di vetro, lunga sei metri e venti e del peso di trenta chili. E’ dotata di due postazioni di seduta. Due govoni a tenuta stagna sono posizionati rispettivamente, uno davanti alla postazione anteriore e l’altro dietro quella posteriore. Al centro, tra i due sedili, vi è un pozzetto protetto da una calza elastica impermeabile. Govoni e pozzetto consentono di trasportare tutto quello che serve: zaini, tenda, sacchi a pelo, acqua e quant’altro. 
I kayaker stanno seduti nell’abitacolo su un comodo seggiolino e indossano la “gonna”, una maglia elastica e impermeabile, una estremità della quale aderisce saldamente alla vita, mentre l’altra viene assicurata con un bordo di gomma ad un alloggiamento che corre intorno alla apertura del vano. In questo modo l’interno dello scafo rimane isolato dall’esterno. E’ fondamentale perché spesso il Kayak entra nell’onda e l’acqua scivola via senza riempire lo scafo. Sulla coda è fissato un timone, manovrato con due appositi pedali dal Kayaker che sta dietro. E’ utile per cambiare direzione senza sacrificare la stabilità nell’andatura dell’imbarcazione.  



Topinetti



Il 21 luglio, dopo l’arrivo a Cavo, ci dirigiamo alla spiaggia di Topinetti dove inizierà il giro dell’isola. I preparativi richiedono un po’ di tempo. Vengono scaricati i Kayak dal carrello, poi Carlo e Paolo danno le istruzioni essenziali a coloro che sono alla prima esperienza. E’ uscito un bel sole, ma bisogna far presto perché le previsioni minacciano piogge. Anzi è sicuro che pioverà. 
Mettiamo i Kayak in mare e partiamo. Teniamo la costa alla nostra destra e procediamo verso sud. Fino a domani, quando arriverà una decima persona, saremo in nove con cinque Kayak e, dal momento che Carlo è solo, il suo kayak viene appesantito con materiale di trasporto per dargli stabilità.
Per questo motivo il gruppo procede lentamente.
C’è una discreta onda e un kayak si rovescia quasi subito. E’ un incidente senza importanza. Bisogna ancora prendere dimestichezza con la canoa. Scrutando continuamente il cielo e lottando contro l’onda, seguiamo la linea della costa rocciosa che procede diritta per sei miglia, poi, girato il promontorio di Capo d’Arco, presso Terranera, approdiamo alla spiaggia Reale dove ci accamperemo. 
Abbiamo il tempo per prendere possesso della spiaggia, fare un bagno, poi piazziamo le tende e accendiamo il fuoco per la cena. Ceniamo guardando il cielo con apprensione in attesa del temporale. Andiamo a dormire e ancora nulla. Poi, verso le due di notte, comincia a piovere con forza. Raffiche di pioggia ci investono 
mettendo a dura prova la stabilità delle tende, ma resistiamo. La pioggia dura a lungo, poi lentamente si attenua e, attraverso le tende, vediamo i bagliori e sentiamo gli echi di tuoni lontani. E’ il retrovia della bufera, un fronte di lampi e saette distante che si avvicina inesorabilmente. Passa furiosamente sopra le nostre teste come un transatlantico vicino ad un gozzetto, poi, finalmente, il fronte si allontana e abbiamo tempo per dormire un’oretta prima della sveglia. 





  Fonza 



22 luglio. Facciamo colazione con un cielo plumbeo ma le previsioni danno miglioramenti. Partiamo e prima di incontrare il sole, la coda del temporale ci regala uno scroscio di pioggia fitta. E’ come un battesimo. Un fatto inaspettato che ci rende euforici. Acquistiamo energia e determinazione mentre ci spingiamo con le pagaie in quella fitta giungla d’acqua piovana. Con la stessa rapidità con cui si è abbattuta su di noi, la pioggia cessa e il sole ci concede il suo tepore.
Ora possiamo navigare con tranquillità e goderci la costa.
In alcuni tratti i boschi fitti di pini mediterranei e di pini delle canarie, che arrivano fin quasi a lambire la riva del mare, danno al paesaggio un aspetto da lago alpino. Il paesaggio cambia in continuazione. Enormi superfici di roccia scoscesa, nude o ricoperte unicamente di licheni o fichi d’India, inaccessibili all’uomo, precipitano perpendicolarmente in mare da vertiginose altezze o declinano verso l’acqua più dolcemente, come chiglie di navi adagiate su un fianco. Scogli e faraglioni, abitati unicamente da gabbiani e da cormorani, si ergono dall’acqua come trofei di ere geologiche inconcepibilmente lontane.
Entriamo nella baia di Norsi dove una lunga spiaggia è al centro di un abbacinante anfiteatro di rocce calcaree. La spiaggia è un cimitero di tronchi di alberi e rami interamente erosi dal mare e resi incandescenti dalla salsedine e dal sole come scheletri di animali nel deserto. Rimaniamo a fare il bagno, giochiamo con un pallone trovato sulla spiaggia e pranziamo. 
Nel pomeriggio riprendiamo il viaggio. Con tre ore di navigazione entriamo nella baia di Marina di Campo e ci dirigiamo sulla destra verso la spiaggia di Fonza. Dobbiamo lottare con un vento di ponente che si è alzato forte e teso. Siamo sotto costa, al riparo dall’onda, ma il vento, che ci investe di prua, arresta quasi la nostra avanzata costringendoci ad uno sforzo terribile mentre risaliamo lentamente le brevi creste d’onda che ci corrono incontro infuocate dal sole del tramonto.
Piazziamo le tende, dopo di ché buona parte dei membri del gruppo, con espressione del viso trasognata e nostalgica, si avventura in un’esplorazione clandestina degli anfratti e degli angoli più lontani della scogliera di lato alla spiaggia. 
Dopo cena rimaniamo un po’ accanto al fuoco a parlare. Il fuoco ci fa compagnia con 
i suoi crepitii e scoppiettii e con il gioco di luci e di ombre con cui segna il profilo mobile delle cose. Poi lentamente qualcuno si alza per andare a dormire. Dobbiamo recuperare il sonno perso la notte precedente. Siamo esausti.  






La Concordia! La Concordia! 



L’indomani, 23 luglio, ci aspetta una tappa di riposo. Non percorreremo 17 miglia come il giorno precedente, ma 6 soltanto. Si tratta praticamente di una tappa di trasferimento in vista di quella dell’indomani che ci costringerà a girare il lato ovest dell’isola, un lungo tratto continuo di costa impervia, senza soste intermedie, visto che non ci sono approdi agevoli per i Kayak. Ci attardiamo nelle golette, sulle spiagge, 
visitiamo la grotta azzurra. Ci fermiamo per pranzo su una spiaggia relativamente affollata. Fa caldo, le meduse non ci consentono di stare a lungo nell’acqua. 
Riusciamo alla bell’e meglio a piazzare un tendone fissandolo ad appoggi precari improvvisati, per darci un po’ d’ombra. Pranziamo e ci attardiamo sulla spiaggia, chi prendendo una bibita alla baracchina, chi leggendo all’ombra del tendone o sotto un albero. Poi snervati dal caldo decidiamo di partire. Abbiamo un paio d’ore di navigazione per raggiungere le tombe dove metteremo le tende. Passata l’appendice di Fetovaia, arriviamo alle tombe e decidiamo di approdare su una spiaggia estremamente piacevole nascosta nell’insenatura di una baia rocciosa. L’unico inconveniente è che Salvatore non può scendere da solo per portarci la cena. Così dobbiamo fare un po' di trekking su per il sentiero che si inerpica sul promontorio. Ci occorrono circa venti minuti per portarci a trecento metri d’altezza dove passa la strada. Siamo stanchi ma il panorama che si gode dalla cima è spettacolare. Lo sguardo spazia sulla linea curva dell’orizzonte che si staglia tra l’azzurro grigio del mare e il cielo rosa al tramonto. Si distinguono nitidamente l’isola di Montecristo e Pianosa. Tornati sulla spiaggia ceniamo e ci attardiamo attorno al fuoco. Mentre a poco a poco ci ritiriamo nelle tende qualcuno indica l’orizzonte: - La 
Concordia! Laggiù, non proprio a sinistra, quella deve essere la costa... un po’ più a destra non può essere Montecristo... e poi mi sembra si muova..
- Sì, sì.. è vero la vedo anch’io”
E’ tutta una bordata di salve di avvistamenti. 
Poi, il mattino seguente qualcuno dirà di essersi alzato di notte, ai primi albori, e che quella che pensavamo essere la Concordia era Montecristo, però la Concordia c’era davvero...un po’ più a destra... 



  

 Il naufragio



24 luglio. Oggi dobbiamo girare intorno all’estremità occidentale dell’isola, un ampio emiciclo di alta scogliera a picco sul mare, un bastione impervio e inaccessibile che si snoda ininterrottamente privo di calette o di approdi agevoli per le imbarcazioni. Non sono previste soste intermedie, dunque, e, in caso di difficoltà, non potremo che andare avanti o tornare indietro. 
Incominciamo la navigazione fronteggiando il vento di ponente e un metro d’onda che, ci investe di prua, poi passata Punta Nera prendiamo il mare di traverso. La navigazione è difficoltosa, comunque, procediamo anche se lentamente. Appena più avanti, dopo Punta Polveraia, ci accorgiamo che il Kayak di Carlo si allontana dalla costa. Manovra la prua sull’onda per non prenderla di traverso per poi scartare di poppa e riportarsi verso la costa. E’ una manovra a zig zag estremamente dispendiosa e lenta. La cosa comincia a non piacere. I Kayak che navigano distanziati di un centinaio di metri avvertono la difficoltà, rallentano l’andatura e cominciano a fare manovra per tornare indietro. Paolo si accosta. La situazione si fa concitata. 
Carlo è perentorio. Stiamo imbarcando acqua. Ci rovesceremo. E’ solo questione di momenti. 
Passano pochi minuti e vediamo la pancia bianca del kayak “sbuzzare” verso l’alto. I nostri kayak si dirigono velocemente verso quello di Carlo. Paolo è già li affiancato al Kayak rovesciato. Ci uniamo a lui fianco a fianco. Con la forza della braccia cerchiamo di opporci al movimento dell’onda e fare in modo che tutte e quattro le imbarcazioni formino come un’unica “zattera”. Dobbiamo bilanciare lo sforzo di Paolo che sta cercando di svuotare il Kayak di Carlo riportandolo a pancia sotto. In meno di un minuto Paolo compie la manovra. C’è rimasta solo un po’ d’acqua. Carlo rimonta subito. Il suo compagno di viaggio, anche lui di nome Paolo, un gigante di un metro e novanta e di 110 chili di peso, deve fare appello a tutta la forza che ha nelle braccia ma alla fine risale. 
Tiriamo un sospiro di sollievo, pensiamo di avercela fatta, ma dopo pochi minuti Carlo si accorge di imbarcare ancora acqua. Il suo Kayak è troppo pesante e l’onda alta ci prende proprio nel fianco. Dopo dieci minuti si rovescia di nuovo.
Di nuovo gli siamo tutti intorno. Questa volta però viene deciso diversamente. 
Si svuota nuovamente il Kayak ma solo Carlo salirà, e pagaierà, trainato da Paolo fino alla spiaggia di S. Andrea che si nasconde dietro una sporgenza della costa a meno di cinquecento metri davanti a noi. Alle altre imbarcazioni spetterà il compito di trainare “il naufrago” fino alla baia. In pochi minuti i due Kayak sono già fuori della nostra visuale mentre noi ci attardiamo con gran fatica a trainare Paolo per poche decine di metri. Alla fine è Paolo stesso che chiede una sosta. Tenersi contemporaneamente alla cima di una fune e alla chiglia di una barca lo stanca, tanto più che è costantemente sovrastato dall’onda. Preferisce reggersi con due mani ad una sola imbarcazione. Capiamo che sta per perdersi di coraggio e cerchiamo di infondergli fiducia mentre continuiamo a procedere a gran rilento. Cerchiamo soprattutto di mantenere il contatto parlando. Dopo cinque minuti vediamo un gommone arrivare a gran velocità. E’ Carlo che ci viene a prendere con un bagnino della baia. Arrivati nella baia possiamo rilassarci. E’ una bella spiaggia attrezzata con tutti i comfort. Docce, bagni, e bar dove possiamo prendere un gelato o un caffè dopo pranzo. 
Nel pomeriggio partiamo alla volta della Biodola. Il kayak di Carlo ora è a posto. E’ stato alleggerito notevolmente distribuendo l’eccesso di carico tra le varie imbarcazioni. Inoltre questa volta l’onda ci spinge quasi di poppa. La nostra andatura sale e riusciamo addirittura a divertirci surfando sulle onde. Per la notte ci accampiamo su una piccola spiaggia in fondo ad una profonda insenatura dove alcuni natanti stazionano in rada. 





  San Giovanni



24 luglio. Ultima tappa, che ci porterà a San Giovanni. Arriveremo a poche miglia dal periplo completo. Sarebbero bastate soltanto tre ore in più., ma la partenza della nave per il ritorno è fissato alle 16,25 e non abbiamo tempo. Sarà per il prossimo anno. Il viaggio di oggi è breve e le condizioni del mare sono perfette. Possiamo dunque rilassarci, un po’ come un’ultima tappa del Tour de France in cui la maglia gialla passeggia accanto ai suoi diretti avversari ridendo e scherzando. 
Procediamo sotto costa gettando qualche occhiata indiscreta nelle ville e villette che tra gli alberi e le piante si sporgono sul mare. Indugiamo nello specchio lacustre della baia dell’Enfola poi aggiriamo la piccola penisola e costeggiamo la riva. 
Attraversiamo l’apertura risicata di un faraglione, passiamo la bianca scogliera di Sottobomba, di Capobianco e delle Ghiaie. Passiamo sotto l’austero parapetto che delimita il giardino della casa di Napoleone sul promontorio di lato alla baia di Portoferraio. San Giovanni è situato dall’altra parte della baia, dunque dovremo attraversarla di gran carriera, facendo attenzione ai traghetti che ogni dieci minuti entrano ed escono incrociando la nostra traiettoria. Siamo tutti vicini come sulla linea di partenza di una gara. Lasciamo passare una nave della Toremar che entra, poi sul lato destro vediamo uscire una Bluenavy. Paolo dà il via. Cominciamo a vogare portando il ritmo al massimo delle nostre possibilità. Come dei pirati all’arrembaggio, puntiamo direttamente sul fianco della nave che a più di cento metri incrocia il nostro percorso. Per quanto andiamo veloce, non riusciremo a percorrere metà della distanza prima che la nave sia già fuori della nostra portata. Sfilata la nave attraversiamo la scia improvvisando un festoso rodeo sulle onde e sui piccoli mulinelli che si liberano nel solco di schiuma tracciato dalla nave. Il clima è quello di ha compiuto un’impresa. Chi canta, chi lancia grida festose. Poi ci lasciamo portare dall’abbrivio per il nostro ultimo approdo a San Giovanni. 
Scarichiamo i Kayak e li montiamo sul carrello del furgone che ci porterà al porto di Cavo. Dopo una rassettata ci concediamo un lusso che ci siamo negati per cinque giorni : mangiare con le gambe sotto un tavolino. A duecento metri c’è un piccolo ristorante. La cucina è buona e i prezzi sono contenuti. 
Il nostro appetito non è proprio quello di un naufrago ma la tavola imbandita e la varietà del cibo hanno la meglio sulla disciplina austera che ci siamo imposti in questi cinque giorni. Così diamo il via: riso nero, acciughe alla marinara, sardine fritte, totani alla brace...



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