lunedì 8 agosto 2016

A malapena ricordo il perché

Di Noemi Mariani

A malapena ricordo il perché… un amico ha fatto sì che io riflettessi ed allora mi soffermo… penso:
… Penso al mio risveglio di quel giorno, alla delusione che con repentino movimento diveniva padrona  dei miei arti, del  mio collo, del mio respiro… Gli occhi, con fatica, si riabituarono alla luce, la profonda conoscenza del luogo che la vista mi imponeva di vedere era soggiogata dalla speranza che tutto era un sogno, una falsità dell’immaginazione, dove i sensi stanchi mutavano a loro piacimento la realtà. Ma no, era reale, ero di nuovo in uno stato di condanna senza né giudice né legalità, senza la consapevolezza delle mie gesta…. sentivo un forte dolore al braccio, che in alcuni punti precisi assumeva un colore scuro con sfumature di un viola intenso, il dolore si estendeva su tutto il torace, le gambe indolenzite come se avessi corso per ore ed ore senza meta… capii, l’esperienza fece da padrona, avevo lottato contro qualcosa o qualcuno, non riuscivo a collocarmi in un passato che a tratti provavo a ricordare ma qualcosa che doveva essere fermato in me mi aveva portato in quel luogo, fra quelle mura sporche in quel mare di delusione…
La Delusione, l’anima mia ne era invasa, avevo ceduto per qualcosa, per qualcuno o per me stessa ero con la testa china davanti a tanta amarezza, che a stento notavo chi avevo intorno… 
Image copyrighted to Sharon Jheeta
Un suono, una voce, una parola dal tono tranquillo con venature amichevoli attirò la mia attenzione, ricordo che era mattina ed il sole era già in alto nel cielo, il senso di frustrazione aumentò appena riconobbi chi le pronunciava, ed il passato tornò con luce più chiara, la realtà aveva un senso, quelle parole così semplici avevano smosso in me ricordi molto piacevoli, poco distanti di tempo dal momento in cui li rimembravo, e quella voce  faceva parte di essi. Tuttavia, lentamente un dubbio cresceva in me, sempre più forte sempre più presente: “Perché il malessere aumenta? Perché non riesco ad alzare il volto verso una voce di cui ho ricordi felici? Perché…!”. Questi ricordi presenti in me e visti come un cortometraggio proiettato nella mia mente raffiguravano un viaggio, tra condivisioni di larga scala accompagnati da sorrisi e discorsi complicati di vita, una complicità naturale spoglia di qualsiasi ruolo, ma con un cammino comune, vissuto con spensieratezza, in un presente tragico.  L’emozione di questo presente di delusione in lotta con un passato sereno fece sorgere in me la vergogna di essere caduta, di essere di nuovo in un limbo tra dannazione e beatitudine, di non essere stata in grado di sostenermi sulle mie instabili gambe.
Passarono minuti, ore, giorni e quella voce ad ogni mattino mi dava il buongiorno, mi chiedeva come stavo o se volevo un caffè, sempre con quel tono tranquillo in armonia con la mia memoria, ed io, col passare del tempo, solcavo sempre più un sorriso sul mio volto facendo scivolare via quell’orrenda sensazione di vergogna, di fallimento, che mi impietriva davanti a chi mi ricordava con sorriso ed occhi tranquilli, di chi poco prima rideva e scherzava con serenità in un rapporto alla pari, ma in me, la sensazione di fallimento, di delusione e di repressione dovuta alla vergogna del mio “malato” essere e del mio cambiamento, non mi permetteva di alzare la fronte per guardare chi, senza che io capissi a pieno il perché, mi si rivolgeva sempre con complementarietà.
In quel luogo, che nell’animo mi dava così tanto degrado, i giorni erano passati  a riflettere sulle mie condizioni, non sempre a ragion di logica, sul mio letto esaminavo orizzonti di pensiero smarrendone  l’inizio e  senza possedere più la capacità di porne una fine, stavo male, ed è forse per questo che una mattina quell’infermiera dal docile saluto si fermò, e mi chiese con garbo se poteva sedersi accanto a me, non avevo motivo per rifiutare, anzi pensai di approfittarne, per convalidare i miei orizzonti le mie certezze e lì, immersa tra orgoglio e preclusioni, decisi di guardare il suo volto alzando il mio, cercando di intravedere la mia verità, le mie conferme, ma di tutto ciò di tutte le mie astruse convinzioni di pensiero, nulla o quasi corrispondeva alla pellicola astratta del mio film cerebrale. 
Fu un colloquio molto sereno, e una serenità incredula mi avvolse lentamente, appresi il senso del tutto, il mio atteggiamento incoerente non era l’apice del problema e  poco dopo, di getto, mi misi a scrivere su di un pezzo di carta dimenticato da qualcuno su di un tavolo… non volevo perdere quella sensazione liberatoria:
  “… Non solo il tempo cura le ferite di un animo trasandato, qualcuno in gesti a me inabituali, trascina la voglia di dare che il senso del tutto è esserci, qualcuno esiste, per restare a chi ha perso il nesso dell’esistenza…”
Mi ero persa, nella mia mente avevo smarrito la verità,  o mi ero creata la mia verità, una falsità che mi angosciava e mi dilaniava l’anima di vergogna, una vergogna apparente, una vergogna inesistente… quello che era sorto tra le parole di un dialogo risolutorio era semplice ma non banale, quello che la mia memoria accoglieva in ricordi passati nel benessere non era né falsa né morta, quel viaggio, tra risa e solidarietà del vivere momenti in comune era rimembrata anche dall’altra parte, all’esterno, in un'altra persona che anche essa con gioia ricordava. Il fatto di aver ceduto al mio “malessere” e essermi ritrovata fra quelle mura sporche non dimostrava che io fossi solo quello, sono anche gioia e serenità, sono stata capace di dimostrarlo a me stessa e agli altri durante quel bellissimo viaggio, questo ho capito ed è questo che quell’infermiera del mattino con serenità tra un saluto e una piccola cortesia mi manifestava…

Sono passati alcuni mesi da quel ricovero e da quando quel mio amico mi ha consigliato di rifletterci sopra e solo ad oggi sono riuscita a scriverlo, forse a realizzare che nulla può essere veramente perduto e come dei fatti possono rimanere in te anche gli altri possono imprimere in sé ricordi veri e positivi, inoltre se cadi la sensazione di vergogna è insensata poiché tutti possiamo piegarci ma tutti possiamo trovare in noi e negli altri la forza di sorridere e andare avanti. 


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