Contributo dell’architetto Andrea Vallicelli.
Primadonna è la barca a vela dell’associazione Mediterraneo,
prima gestita in comodato, ora di proprietà.
Poco tempo fa il timone ha subito dei danni e doveva essere
riparato ma nessuno riusciva a smontarlo…prima di procedere con il taglio ci
balena un'idea: perché non provare a contattare il prestigioso architetto
Vallicelli, che disegnò la nostra barca come prototipo della più nota Azzurra?
Ed ecco che non solo ci aiuta a non distruggere il timone ma
con grande disponibilità risponde ad una nostra intervista che pubblichiamo di
seguito. Ringraziamo l’architetto e il suo studio per la celerità con cui ci
hanno inviato i disegni e per la gentilezza dimostrata.
Domande:
2) Può sembrare paradossale che una barca,
Primadonna, pensata per far vincere i migliori velisti sia oggi utilizzata
dalle persone più marginali. Proprio per la sua nascita come barca da regata è
stata anche tanto bistrattata nel nostro ambiente in quanto così spoglia e
inospitale. Nel tempo delle piccole modifiche l'hanno resa più fruibile
(avvolgi fiocco, scaletta) anche se il bagno è rimasto un
"armadietto" Ciò ci spinge a fare una riflessione sul fatto che le
barche sono le persone che le abitano. Pensa che il cambio d'uso di un oggetto
sia uno spreco o dia ad esso una nuova vita?
Carissimi dell’Associazione Mediterraneo, rispondo con
piacere alle vostre domande cominciando però dalla seconda perché mi sembra
richieda una risposta più semplice ed immediata.
Ritengo che il recupero (o meglio il cambio d’uso) di
un’imbarcazione, nata per le regate come “Primadonna”, se fatto con un po’ di
cura e buon senso possa rivelarsi adatto ad una utilizzazione crocieristica. In
fondo uno yatch ha una natura sportiva per definizione, e la vita a bordo
richiede flessibilità sotto molti punti di vista (dimensionali, ergonomici,
relazionali etc.). Inoltre sono dell’avviso che, come avviene in molti altri
campi (spazi abitativi privati e pubblici, mezzi di trasporto etc.),
l’adattamento ad un determinato artefatto, concepito originariamente con
finalità diverse, permette di stabilire con questo un nuovo rapporto
(uomo-oggetto), per alcuni aspetti più faticoso, ma per altri più stimolante.
Passando
alla prima domanda, posso dirvi che ho cominciato fin da piccolo a svolgere
attività agonistiche nel campo delle regate d’altura. Poi quando ero ancora
studente di architettura, ho disegnato per puro divertimento la mia prima barca
a vela di 9 metri: “Ziggurat”, che successivamente fu realizzata con il
concorso finanziario, e fattivo, di una decina di amici.
Ziggurat (il nome era ispirato non tanto all’archetipo
architettonico quanto alle opere pop di Joe Tilson degli anni 60), progettata
per gioco, ottenne risultati significativi nell’ambito delle competizioni
nazionali ed internazionali ed è accaduto così che altri appassionati mi
richiedessero di progettare nuove imbarcazioni, tanto da indurmi in breve tempo
ad iniziare – senza che me ne rendessi conto – una vera e propria attività
professionale a cui mi dedico ormai da una quarantina d’anni.
Tralasciando gli aspetti specificatamente professionali,
vorrei offrirvi, oltre le mie impressioni da progettista, delle riflessioni sui
temi riguardanti la dimensione “creativa”, o meglio “ideativa” (come credo sia
più corretto chiamarla) di un’attività progettuale (design) che ha a che fare
con artefatti particolari (navi, imbarcazioni) destinati a vivere, percorrendo,
un contesto speciale sotto il profilo naturale e culturale come il mare.
L’ambiente marino non è mai stato un territorio di facile
dominio ed i mezzi concepiti per percorrerlo sono delle macchine piuttosto
complesse che forse rappresentano le più antiche macchine abitabili ideate
dall’uomo.
Passando all’attività progettuale, premetto che in molti
anni di esperienze in questo campo, ho maturato la convinzione che la
progettazione sia un processo complesso la cui dinamica (spesso imponderabile)
si articola in più momenti interattivi fra loro: uno di ideazione, uno analitico
di supporto, di verifica e controllo ed uno sintesi che costituisce l’elemento
tangibile e necessario alla concretizzazione dell’oggetto. Non conosciamo
esattamente in quale regione della nostra anima si svolgano, ma crediamo, forse
per motivi consolatori, che i processi analitici e quelli di sintesi
appartengano alla sfera del razionale, quella controllata dall’io cosciente,
altrimenti non potremmo trasformare questi processi in esperienze ripetibili,
oggettivabili e quindi trasferibili per via culturale.
La ricchezza delle fonti a cui ci abbeveriamo nella fase
ideativa dipende da molti fattori: dalle esperienze personali e sociali,
dall’ambiente, dalla nostra cultura, ed anche dal mare magnum del nostro
inconscio: Mi hanno sempre affascinato certe analogie fra lavoro progettuale e
lavoro onirico che fonde linguaggi primordiali con residui mnestici di altre
esperienze: ambedue mirano all’appagamento di un desiderio.
Il progettista opera come un catalizzatore di molti elementi
più o meno riconoscibili, con l’obiettivo di dar forma a delle funzioni o
paradossalmente (come talvolta accade) a subordinare le funzioni ad una forma
che lo ha condizionato emotivamente.
Il progetto
di un prodotto destinato ad una produzione industriale (anche se di poche unità)
mira a determinare non solo le proprietà formali dell’artefatto in questione,
ma soprattutto la sua coerenza in termini di relazioni funzionali e
tecnologiche. Ovviamente il ruolo di altri fattori, quali i modelli di consumo,
l’evoluzione del gusto, i sistemi di vendita che sono alla base delle strategie
commerciali, hanno un peso non certo secondario nella definizione del prodotto
stesso.
Il designer che opera nella nautica, forse più che in altri
campi, è costretto a confrontarsi continuamente con la multidimensionalità del
problema progettuale, ad interfacciarsi con discipline diverse. La ricerca
abbraccia infatti tematiche molto articolate: basti pensare ai problemi
fluidodinamici, all’innovazione tecnologica ed ai sistemi produttivi legati ai
materiali compositi, all’indagine ergonomica ed all’arredamento negli spazi
minimi, nonché alla interpretazione delle dinamiche di un mercato molto
volubile.
Quando mi trovo a progettare un’imbarcazione a vela e voglio
raggiungere un risultato che soddisfi contemporaneamente i requisiti
tecnologici e quelli estetici, mi è indispensabile partire dalla conoscenza e
dallo studio dei problemi di tipo aero-idrodinamici, ma la consapevolezza
dell’importanza dei fattori simbolici mi porta anche a percorrere strade meno
controllabili scientificamente: come quelle in cui mi diverto a giocare con
elementi formali che evocano archetipi della lunga storia navale o
dell’ambiente naturale. Cerco di avere, in definitiva, un controllo dell’iter
ideativo su più livelli, ma il problema prioritario sta nel raggiungere una
condizione di equilibrio sotto il profilo configurativo e prestazionale. Una
metafora, quella dell’equilibrio, che ho rintracciato nei mobiles di Alexander
Calder.
In queste sculture, che sembrano galleggiare nell’aria, se tocchiamo un
elemento, il sistema assume immediatamente una nuova configurazione grazie alla
forza di gravità, che tende a ricomporre e a riorganizzare le diverse parti che
le costituiscono. Qualche tempo fa nel visitare una mostra di questo grande
artista mi capitò di leggere delle sue riflessioni su alcune opere realizzate
negli anni 60. Mi sorprese che lui stesso usasse la metafora della barca a vela
per esprimere il senso dei mobiles. Non nascondo che mi abbia emozionato
pensare che potesse esistere una profonda affinità fra le sue opere e le mie
imbarcazioni. Un’affinità che si manifesta essenzialmente nella stessa sfida
alla gravità, nella ricerca di materiali sempre più leggeri e resistenti, nelle
soluzioni e nei meccanismi di funzionamento. Il design di una barca a vela
riflette in definitiva questa tensione progettuale di ricerca della condizione
di equilibrio che regola il movimento in presenza di forze aerodinamiche e
idrodinamiche.
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