lunedì 13 giugno 2016

Esse est percipi o percipi esse est?

Di Noemi Mariani

Sei mai stato nel parco di via Ricci?
Quel piccolo parco pieno di margherite che sembra, da quante ce ne sono, rendano l’estate inverno, fresco e bianco; forse è per questo che lo hanno chiamato “Parco Primavera” e lì al tempo non è consentito entrare, come ia cani  alle biciclette. Se fai caso, appena entri dall’entrata principale, alla tua destra c’è l’albero più bello, un melo, sempre in fiore come le margherite ai suoi piedi. Sai, un tempo, quel parco non era così fresco, non c’era quella distesa di bianco vivo, ed il melo sembrava perso nella desolazione senza fine. Avevo la tua età, o poco più di sei anni. Il tempo era diverso, così la città e la vita. Ricordando quel triste melo, pensavo che solo io riuscivo a capirlo, forse perché i più grandi fissavano gli occhi alle nuvole, nell’attesa di vedere la fine dei lampi, il cielo sereno. Crescendo, non smisi di andare a trovare il dimenticato albero, poiché, dopo i primi incontri, divenni il suo unico amico di giochi, in quanto ero il solo a scorgere le lacrime nelle crepe. Adesso nella mia vita di oltre settantenne, mi sorprendo vedendo il melo in fiore e sorrido pensando alla semplicità di quel che era quel bambino, unico e solo verso il melo, più che unico era il solo non indifferente alla dura realtà.
Questa breve storia è nata per caso, come per caso si prende un libro fra mille, per ammazzare la noia di un viaggio, dove la scelta dipende dal titolo, tralasciando il suo reale contenuto.
L’essere consiste nel venir percepito o il venir percepito comporta un essere? Il bambino è triste perché vede la degradazione del melo o la realtà del melo si specchia nella semplicità dell’io? Esse est percipi racchiude l’dea con cui Kant, ed in seguito Schopenauer, posero in dubbio l’esistenza del reale mondo esterno, attribuendone la rappresentazione al soggetto, per cui la realtà diviene priva di esistenza autonoma. Una morte creata dal limite del risveglio della sua concezione vive e risplende in un parco letterale e in un melo, che ha, alle radici, margherite bianche dai petali in ascolto.
E l’uomo?
Siamo individui pensanti, persone dotate di una propria volontà, sentimento e autocoscienza; siamo la rappresentazione dell’essenza del genere umano.
Siamo esseri caratterizzati dallo sviluppo straordinario del cervello, dalle facoltà psichiche e dall’intelligenza, dall’uso esclusivo del linguaggio simbolico articolato e dalla conseguente capacità di fondare, tramsettere e modificare.
Siamo volti posticci di materiale vario, intenti ad esprimere determinati sentimenti.
Siamo ciò che appare, mai in contrasto con ciò che è apparenza.
Siamo il tutto. Ma non siamo niente, anzi, siamo lo specchio tracendentale del mondo.
Siamo persone distorte:
accumuliamo, ammucchiando e mescolando nell’essere ogni attributo a noi rivolto, modificandolo e rendendolo proprio ed unico.
È possibile che la parola”Persona” abbia molteplici sensi diversificati tra loro, tuttavia un senso biunivoco racchiude la molteplicità di un’unica identità. Kant, nell’”Antologia pragmatica” definisce la “Persona” come unità di coscienza persistente, l’uomo è l’unico essere partecipe di se stesso durante l’intera continuità del suo tempo. Un concetto di persona inteso come “sbocco” verso il proprio mondo, una relazione con sé, ossia come conoscenza di sé: l’io, il sentimento che ogni individuo ha della continuità della propria esistenza; il Principio d’Identità, che annuncia: cio che è, è, ciò che non è, non è, ovvero ogni essere è identico a se stesso; la perfetta uguaglianza.
Rapportare l’io alla formazione della propria identità, correlando il tutto in un fluido dialogo con se stessi, diviene il pilastro concettuale che ha assillato le menti e che la letteratura, l’arte e la musica hanno messo a nudo, sviscerando l’assenza profonda dell’uomo.
Nel suo uso classico greco e latino, “Persona”  indicava la maschera, atteggiata ad un particolare stato d’animo, come ad esempio collera, paura, felicità, che gli attori portavano in scena per rappresentare visivamente il Ruolo che interpretavano. Quindi in principio, il termine esprimeva ciò che si vuole apparire, ma non si è.
Lo studio dell’interiorità psichica dell’individuo, nel teatro, in particolare il teatro del 900, assume il ruolo di esplicazione critica della relazione tra uomo e società, l’io e la struttura con le sue infrastrutture (come Kant schematizza la società). La vita è una commedia, quindi la vita può essere portata sulla scena: è il momento del “teatro nel teatro”, della trilogia pirandelliana: in “Sei personaggi in cerca di autore” l’autore sparisce ed i personaggi si muovono senza la sua mediazione, il dramma familiare è censurato dalle convenzioni sociali, proprio perché è vero dunque irripresentabile; da qui si passa alla persona che si da “personaggio” in “Enrico IV”, lì la denuncia è rivolta all’assurda pretesa, da parte della società, di guarire quelle malattie che essa stessa ha provocato; infine in “Uno, Nessuno e Centomila” il radicale rifiuto dell’assetto sociale trova la soluzione in una irrazionalistica fuga dalla natura, un’evasione dell’irrazionalità, rifiutando l’inserimento nella realtà storica fondata sulla famiglia, il lavoro e il denaro.
Il dilagare nell’irrealtà è la soluzione novecentesca ai mali sociali che comportano negativamente la dissolvenza dell’identità e dell’unità dell’io; nascono le malattie dello spirito e la psicopatologia.
“La malattia non è un oggetto naturale ma un processo” (K. Jaspers), è un decorso la cui induzione e risoluzione è infinita se rivolta al singolo, poiché infinite sono le interpretazioni agli infiniti input a noi tramessi, i quali ci si prospettano fin dalla nascita, fin dalla prima immutabile formazione dell’essere, dell’io, della propria identità. Dico immutabile ma perennemenete in mutazione a causa del nostro “vizio” moderno di gettare il fisso sguardo all’esterno, perdendo e non acquisendo l’uso della coscienza persistente, della perfetta uguaglianza, tralasciando che, a livello inconscio, noi non siamo mai gli stessi; noi siamo la maschera del mondo, della società, della cultura, della famiglia, noi siamo l’ignoranza della nostra esistenza, il conformismo della vita.
Forse è troppo affermare che non siamo “niente”, ed è grande il rischio di cadere in un profondo pessimismo, in un desiderio inconscio di toglierci una vita che non è mai stata nostra, ma dell’epoca.
Adesso è consono, nello scrivere, gettare la propria soluzione; la soluzione universale ad un problema esistenziale. Mi limiterò, per mancanza di inventiva, a citare la chiarezza della “Continuità” di Whitman, aggiungendo che l’ascolto e la lettura sono un buon inizio per vedere e vedersi vivere del mondo:

Nulla è mai veramente perduto, o può essere perduto,
nessuna nascita, forma, identità – nessun oggetto del mondo,
né vita, né forza, né alcuna cosa visibile;
l’apparenza non deve ingannare, né l’ambito mutato confonderti il cervello
Vasti sono il tempo e lo spazio – vasti i campi della Natura.
Il corpo lento, invecchiato, freddo – le ceneri rimaste dai fuochi di un tempo,
la luce degli occhi divenuta tenue, tornerà puntualmente a risplendere;
il sole ora basso a occidente sorge, costante per mattini e meriggi;
alle zolle gelate sempre ritorna la legge invisibile della primavera,

con l’erba e i fiori e i frutti estivi e il grano. 

Walt Whitman


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