Di Luana Baldacci
Giornate
di vita quotidiana perse nel niente della mia vita presente. Giornate di vita
che mi riportano ossessionatamene al tremendo passato senza poter fare niente
per respingerle. Oggi, per esempio, sto rivivendo un episodio di
quando avevo appena (e non ancora) cinque anni. Erano i primi di febbraio e
faceva un freddo cane, le straducole e i viottoli di Collesalvetti erano uno
strato di ghiaccio che brillava di prima mattina sotto un tiepido sole
nascente. Io ero poco vestita, le gambe nude e i piedi intirizziti e infilati
in un paio di zoccoletti che mi stavano oltremodo piccoli, quando il caro mio
”papà” mi mise un cestino con un canevaccio dentro, in mano dicendomi: «Ora vai
su alla chiesa che la perpetua ti deve dare dodici uova fresche! » Io spalancai
gli occhi e con in mano un cestino di vimini uscii dalla nostra casa, una
baracca di legno avviandomi intirizzita dal freddo verso la chiesa che stava abbastanza lontano in
cima alla collinetta. Arrancando mentre morivo dal freddo, su per la terribile
scalinata fatta di larghi e grandi scalini arrivai alla chiesa. Suonai
alzandomi sulla punta dei miei piedi afferrando la cordicella che teneva legata
una campanella. Venne ad aprirmi la perpetua che mi fece entrare e presa dalla
pietà mi fece bere una tazza di latte caldo con insieme un biscotto fatto in
casa da lei.
Dentro la chiesa faceva un po’ caldo e io lì stavo bene, ma fu per
breve tempo, la signora perpetua ritornò con il cestino pieno di uova da
portare via e uno con due buchetti che mi fece bere; l’uovo era ancora caldo e
veramente buono. La ringraziai e nel salutarmi mi diede un bacio sulla fronte
dicendomi: «Fai attenzione a scendere povera piccola!». Nel tragitto di andata
e ritorno ero in compagnia di Bianchina, una piccola cagnetta che si era fatta
amica mia, di mia sorella, e della mamma. «Andiamo Bianchina, non possiamo fare
tardi lo sai... »
Il freddo mi faceva tremare da capo a piedi e i zoccoli mi uscivano dai piedi
congelati. Faticavo, non so dire quanto, camminando su quei enormi scalini
ghiacciati in discesa. I miei passi erano piccoli ed incerti e, non so come fu,
ad un certo punto dopo aver sceso due soli scalini scivolai e caddi con il
corpo in avanti tenendo più alto che potevo il cestino con le uova, ma loro
cadevano mentre io ruzzolavo sempre più giù sempre più giù e in fondo mi fermai
tumefatta dalla lunga e brutta caduta, mentre Bianchina leccava a più non posso
le uova rotte. Mi alzai infine da terra e mi guardai le gambe. Stavo perdendo
sangue dalle cosce fino ai piedi e anche dalle mani e dalle braccia nude. Ero
dolorante dalla testa ai piedi e anche nel viso ero coperta da graffi e me lo
strusciavo con le mani doloranti e insanguinate. Feci allora un grosso respiro
e mi feci coraggio serrando come al solito la bocca tumefatta. Chiamai la
cagnetta e mi avviai con lei verso la baracca con il cestino vuoto in mano.
Sulla porta c’era “lui” con i suoi stivali neri e in mano il suo adorato
frustino! Poi: «Cosa hai fatto cretina?» Mi chiese ed io pensai dentro di me «Perché
non si vede che sono caduta? ». Ma “lui” mi dette due frustate nelle gambe e mi
buttò in casa con uno spintone mentre
con un piede dava un bel calcio alla cagnetta che era tutta sporca di uova. Dentro
continuò infuriato a tirare seggiolate a me e a mia madre che cercava di
difendermi dalla sua furia. Poi “lui” se
ne andò bestemmiando e io rimasi
abbracciata alla mamma che piangeva disperata e con lei piansi anche io! Ecco
questa è un’altra piccola parte delle angherie subite assieme a mia madre da
“lui”.
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